martedì 21 giugno 2011

Tiken Jah, il concerto della vita

Tan tan tantatan ta ta taaaaaaaaa
E poi le trombe
E poi la voce, calda e profonda: “Non non non non n’né tena son oma/ Non ne tésson oma ayebada/ N’tésson oma/ Ne tésson oma ayebada/ N’tésson oma…”
E la musica mi entra dentro la pancia dall’ombelico e mi scalda e le gambe si flettono e fanno male ma non riesco a smettere di ballare.

Lui è là, bellissimo: un omone gigantesco con una gran massa di dred che salta e balla, svolazzante nel suo boubou di iuta, e la sua voce gratta l’aria di questa splendida serata, non piove, non fa caldo, non ci sono zanzare. Il concerto è per la riconciliazione (per beneficenza -costruisce una scuola ad ogni concerto- e solo a 3 euro) ed è ad Abobo, il quartiere che più ha sofferto per la guerra, quello in cui hanno sparato sulle donne al mercato, quello del "commando invisibile". Lui ad ogni canzone ne spiega il significato e tutte parlano di pace, del bisogno di un'Africa unita, di "rivoluzione" intelligente, dell'importanza dello studiare, di come la cattiva politica ha ridotto il suo paese, lui che è dovuto andare in esilio 5 anni solo perché ha cantato "quitte le pouvoire" (molla il potere) a Gbagbo; parla dello sfruttamento che i bianchi "ci" fanno e poi "ci" chiudono le frontiere. Ogni canzone un pezzo di storia di questo Paese, un saggio antropologico.

Ancora trombe, malinconiche. Poi partono basso, chitarra, maracas, forse c’è anche un balafon. Classico ritmo reggae: “We wont a revolution/ young people’s revolution/ Intelligent revolution/ Must be african’s education”.
E Caio balla a piedi nudi nel fango.
E Taibou è l’unico africano che non sa ballare.
E Lina ha trovato un cappellino rasta bellissimo.
E Yakou sembra un bambino impazzito di gioia e canta tutte le canzoni in Dioulà (il dialetto "dei poveri" di tutta l'Africa occidentale).
E se ci fosse Marysol si divertirebbe un casino e farebbe stage-diving fino a Tiken Jah!

“Sors de ma télé, yehhhhhhh” e le braccia si lanciano in aria e sono diecimila con le altre e io non riesco a smettere, ora su una gamba ora sull’altra, e via: il sedere ondeggia da solo e i capelli mi vanno negli occhi.
E io e Caio siamo gli unici bianchi e tutti si fermano per conoscerci, per spiegarci cosa significhi per loro quella festa e che cosa significhi per loro che anche noi siamo lì.

Tam tam, poi sassofoni: “Viens voir, viens voir/Viens voir, viens voir /Toi qui parles sans savoir /Mon Afrique n'est pas ce qu'on te fait croire/Pas un mot sur l'Histoire de ce continent/Sur les civilizations et les richesses d'antan /Aucun mot sur le sens des valeurs/Des gens qui t'accueillent la main sur le coeur …”.
E siamo circondati dalle FRCI (l'armata nata dal connubio degli ex ribelli e disertori dell'esercito lealista che ha liberato il Paese e rappresenta l'unica forza dell'ordine al momento perché poliziotti e gendarmi sono scappati), tutti ragazzi, alcuni giovanissimi, tutti con maglietta "peace and love" e kalashnikov. Sì, lo so è una contraddizione e la presenza di tanti giovani armati è uno dei problemi di oggi. E forse ballare e farsi le canne con quelli che a loro volta ballano, fumano e sono ubriachi persi con un fucile in mano non è il massimo. Ma in questo momento mi sembrano bellissimi anche loro, mi sembrano ragazzi che hanno combattuto per il loro paese, che ora festeggiano la vittoria. Sono l'immagine di questo posto assurdo, di questo continente folle di cui mi sto innamorando. « …Viens voir /Viens voir, viens voir/Viens voir, viens voir/Toi qui parles sans savoir /Mon Afrique n'est pas ce qu'on te fait croire/Africa n'est pas ce qu'on te fait croire/Viens dans nos familles/Viens dans nos villages/Tu sauras ce qu'est l'hospitalité /La chaleur, le sourire, la générosité/Viens voir ceux qui n'ont rien /Regarde comme ils savent donner/Tu repartiras riche/Et tu ne pourras pas oublier… ».

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