domenica 13 novembre 2011

Alla mia vecchia redazione

È in questi momenti che mi mancate. Quando scorro le notizie su Repubblica.it, per esempio: Berlusconi si è dimesso (meglio –troppo- tardi che mai!), ecc.
Mi immagino il fermento in redazione: Andrea con quattro cornette del telefono tenute due a due sulle orecchie con le spalle mentre digita sulla tastiera e segue le altre tv; un vociare da MilanoFinanza; Marina che parla a mitraglia dalla sua postazione; la Pira che sgambetta in giro; Melzi che sbraita al telefono e poi si trascina pesantemente nelle sale di montaggio; Gaio che, forse grazie al nome, riesce sempre a strappare una risata generale, anche nei momenti di maggior tensione; Carlos che aggiorna i pezzi del giornalino (i redattori del giornalino che se ne vanno in mansarda a fumare); qualcuno che inveisce contro Documentum; battutacce tra la regia e l’infografica; le signorine di ClassLife immuni a tutto tranne che alle sfilate di moda. E Franco. Seppur affranto per la caduta del “suo” Presidente del Consiglio, sta col fiato sul collo di tutti; come sempre… Anzi: più del solito!
Tante cose sono cambiate in questi due anni (e non parlo del digitale terrestre divenuto finalmente una realtà –chissenefrega-): io vivo nella brousse di un Paese in cui per “dimissionare” il presidente che aveva perso le elezioni, hanno fatto una guerra civile (un pochino più “esiziale”, ma si tratta pur sempre di un Paese di sudditi che amano il tiranno e quando cade lo calpestano); e seguo le notizie dell’Italia su internet, quando funziona. Lì, invece, ci sarà un palinsesto tutto nuovo, un sacco di gente diversa, un’organizzazione differente.
Ma mi ricordo una cosa che forse lì è rimasta e di cui, in questi momenti, sento la mancanza: l’adrenalina che si respirava quando la redazione veniva investita da una notizia importante. Era come una delle tempeste che si registrano qui: vedi addensarsi nuvoloni scuri all’orizzonte; li fissi e aspetti che arrivino; ti prepari, tendi tutti i muscoli in attesa di sentire il tuono che dà il via allo scroscio di pioggia; e quando finalmente arriva, il vento fa volare tutti i fogli e, come su una nave in balia dei marosi, tutti si dimenano per mantenere la rotta.
Mi ricordo l’11/9. Io ero ancora in stage, avevo avuto l’incarico di montare le macchie: vedere quei video prima che andassero in onda, mi faceva sembrare tali immagini paradossalmente più vere. Stavo assistendo alla Storia in prima fila, mentre Dario e Usai non riuscivano a spiegare (perché era impossibile farlo) ciò che stava accadendo. E Nicola era risalito dallo studio con la faccia della volpe che si è appena mangiata il pollo.
Oppure il G8 di Genova: quando in riunione di redazione ho confessato che “io c’ero” (non potendo tacere nel sentire “giudizi sommari” su Carlo Giuliani), ne è nata una discussione col Taglia, durata 8 anni.
Ma parlo di 1.000.000 d’anni fa!
Chissà adesso cosa sta succedendo lì da voi…
“Non ho immaginiiiiii!!!!”
Quante volte ho sentito riecheggiare questo grido disperato (quando saltavano i feed, quando si perdevano le cassette d’archivio,…)!
E ora sono io che lancio quel grido: il mio meraviglioso mondo da 20.000 leghe sotto i mari è completamente alieno da tutto ciò: niente Tg (“Come ha aperto il TG5? E Sky?”; “Ma hai visto Minzolini? Non si smentisce mai!”); perfino i video su internet sono preclusi dalle connessioni lente.
Cosa non darei per vedere la faccia del Cavaliere, finalmente senza quel sorriso da iena!
E per la prima volta, dopo due anni, vorrei essere lì. Solo per un momento, anche solo da spettatrice, e poi ritornare col mio Nautilus in Costa d’Avorio. Vorrei essere lì per respirare ancora quell’adrenalina, quello spirito di gruppo che (nonostante tutto), nei momenti gravi saltava fuori.
Ma soprattutto, per stuzzicare Franco: anche gli spread sono comunisti? E del “compagno” Monti che ne pensi? (personalmente ritengo che anche Topo Gigio in questo momento sarebbe meglio del Berlusca, ma continuo a sperare che in Italia prima o poi nascano dei politici veri).

mercoledì 9 novembre 2011

Abissàààààààà

Con la banda al gran completo ci apprestiamo a festeggiare l’Abissa.
Ritrovo al magasin di Yakou che ci accoglie con magliette e braccialetti per l’occasione. Quindi si prende in braccio la piccola, stende su tutti gli altri la sua ala di angelo custode e ci porta alla scoperta del dedalo di viuzze del quartiere coloniale.
L’Abissa è la festa annuale del popolo N’zima: il momento in cui il re di Quartier France (il quartiere coloniale, appunto, nonché capitale del regno N’zima) esce per incontrare la sua gente, giunta da tutta la Costa d’Avorio (e confini vari). Questi gli faranno le loro rimostranze, una sorta di bilancio annuale del regno; la loro forma di democrazia. Stando, almeno, alla spiegazione di Jonas (uno dei nostri educatori che è nel comitato organizzatore della festa). Secondo altre fonti (vd http://www.abissafestivale.com/Abissa.htm, very interesting), è il momento in cui tutti confessano a tutti i propri peccati e chiedono assoluzione e benedizione.


In ogni caso, si tratta di una specie di carnevale (progenitore forse di quelli caraibici o di New Orleans): gli uomini si travestono da donna, altri si mascherano con pasta, attieké, pop corn, scatole di fiammiferi o di sigarette, perfino con orsacchiotti o macchinine a pedali in testa! Tutti (quindi anche noi) si dipingono il volto con l’argilla, bevono e ballano ovunque per le strade. E ogni tanto bisogna gridare: "Abissààààààà" e ridere.


Noi entriamo subito nello spirito della festa: Yakou ci porta in una corte dove degli amici suoi hanno improvvisato un bar abusivo ed estemporaneo per la ricorrenza. E lì ci spariamo la prima bottiglia di orangin (koutoukoù –cioè grappa di palma- e succo della passione), che ormai nel mio cuore ha preso il posto del Pastis.
Poi andiamo verso la piazza dell’Abissà, in tempo per vedere sfilare il re: una processione variopinta e semiseria, in cui le persone agghindate in modo eccentrico (anche per loro), si mescolano alla cheferie e agli altri notabili che accompagnano il re. Tutti i membri della corte reale indossano l’abito tradizionale (una sorta di tunica all’antico romano, di una stoffa a fantasia geometrica verde, rossa e oro) e portano uno scettro, probabilmente in polistirolo, dipinto anch’esso d’oro. La corona del sovrano è dello stesso materiale, ma di una pretenziosa forma a fortilizio con torrioni.
Dopo il suo passaggio, ci scateniamo in danze a suon di tam-tam e fischietto. Io mi sento abbastanza impedita, ad affondare nella sabbia nel tentativo di imitare le migliaia di sederi, di ogni sesso ed età, che mi tamburellano intorno, vibrando come fossero tanti budini staccati dal resto del corpo e perfettamente sintonizzati sui ritmi sincopati della musica. Mary, invece, che si è sparata una bottiglia di coca-cola (per lei l’equivalente del nostro orangin, e quindi era eccitatissima), era perfettamente a suo agio: una nanetta bianca con t-shirt formato vestito da sera, che si agita in mezzo alla folla… inutile dire che abbiamo attirato piacevolmente l’attenzione.
Verso le sette di sera, ci sediamo ad un maquis per prendere fiato, mangiare un polletto alla brace e osservare la via principale del quartiere trasformata in un’animata sagra di paese.
Nel frattempo, Leo Mary e Nucci sono venuti a casa a dormire e noi, con altri amici che intanto ci hanno raggiunti, torniamo nella corte dell’orangin a spararci un paio d’altre bottiglie. Anche lì c’è musica: Zouglou, una sorta d musica tradizionale africana su ritmi techno… veramente inascoltabile! Ma non c’è problema: basta dirlo a Yakou, lui parte, va a parlare col dj e torna sulle note di Tiken Jah.
Dopo aver dato il meglio di noi in quel posto, abbiamo pensato di deliziare con la nostra allegria anche un altro localino, dove abbiamo trovato Ka-Jim, un cantante in voga da queste parti. Fa la sua comparsata con un paio di pezzi, poi lascia il microfono a un signore con una caldissima voce blues. Anche lì si balla e si beve fino allo sfinimento, quindi si torna alla piazza dove sapevamo che Ka-Jim avrebbe cominciato un vero e proprio concerto. Arriviamo in tempo per riuscire a sistemarci in prima fila, procurarci dei bicchieri e cercare di convincere la star (mentre sta cantando sul palco, l’idea infelice è di Caio) a farci un autografo su una foto, formato A4, spuntata da non so dove, che ritrae un Yakou giovanissimo al suo fianco. Fortunatamente prima che arrivino i gorilla della sicurezza, si mette a piovere e ce ne andiamo: chi in un’altra discoteca, chi (come la sottoscritta) a dormire (ormai sono le 4 di mattina!).
Buona Abissa a tutti!

mercoledì 2 novembre 2011

Sassandrà

Ore 8.15, partenza per Sassandra. Con solo un quarto d’ora di ritardo sulla tabella di marcia, ci avviamo alla scoperta della “Riviera di Ponente” della Costa d’Avorio.
Il viaggio è lungo: anche se sono solo 300 km circa, si tratta di attraversare tutta Abidjan (col suo solito traffico caotico) e di percorrere strade, asfaltate quando ancora c’erano i colonialisti. Ora, dopo 50 anni, due colpi di stato e un paio di guerre civili, per lunghi tratti il tragitto è sterrato o si apre improvvisamente in voragini in cui la macchina entra completamente e ne riesce piano piano. Se non si sta attenti si rischia di lasciarci il mezzo e la schiena.
Il paesaggio è comunque incantevole: lasciata la capitale economica alle spalle, il panorama inizia a farsi collinoso. Per me e Caio, abituati all’orizzonte sinuoso del nostro Piemonte, poter rivedere qualcosa di diverso dal piatto acquitrino in cui affonda Bassam è una vera emozione. E come sul mio Appennino, la statale sale e scende tra i boschi. Unica differenza è che là ci sono castagni, querce e abeti; qui alberi della gomma, palme, manioca, fromagé (una specie di ceiba sotto cui si riuniscono i villaggi a parlamentare). In alcuni momenti sembra che la vegetazione vinca contro il bitume e la strada si restringe, divorata dagli arbusti. In altri si passa sotto gallerie di rami.
Così per 9 (nove!) ore (con pausa per il pranzo). Per fortuna dal nostro archivio magnetico abbiamo tirato fuori una colonna sonora degna di un film on the road: Bob Marley, Rolling Stones, misto anni ’80, cantautori italiani, canzoni di lotta e protesta (Mary va matta per “Compagni dai campi e dalle officine…”; la sa tutta!).
Arrivati, scopriamo che il nostro hotel (oltre ad essere molto dignitoso) è dotato di terrazze panoramiche sul mare e sull’estuario del fiume, offre dei gamberi che sono la fine del mondo e ospita anche una famiglia italo-ivoriana: la piccola trova subito pane per i suoi denti, due bimbi scatenati quanto lei. È bellissimo vederli scorrazzare urlandosi dietro frasi per metà in francese, per l’altra metà in bresciano.
Il giorno dopo andiamo alla ricerca della Godé Plage, una spiaggia di cui ci hanno molto ben parlato, ma molto ben nascosta. Dopo vari tentativi, indicazioni fasulle (qui nessuno mai ti dice: “Non so”, piuttosto inventano) e un’oretta di pista nella giungla, arriviamo al Paradiso: infinita spiaggia dorata orlata di palme, deserta e selvaggia.
Qui vive Michel Godé, un uomo che sembra un barbalbero: fisico magro e nervoso, il tronco che sembra proprio quello di uno delle piante che abbiamo appena visto sfilare nella giungla, incrostato di liane di tendini. Dice di avere 36 anni, ma forse sono 46 ben portati; ha lavorato per anni sulle navi, facendo un po’ di tutto, anche il cuoco. E poi è venuto a stabilirsi qui. Inutile chiedersi perché proprio qui: è il primo impulso di chiunque vi metta piede.
Lui ha impiantato un albergo. Noi eravamo i suoi primi e unici clienti da quando aveva aperto; in marzo, mi pare mi abbia detto (se sul dove la risposta è facile, sul quando lascia perplessi: in piena guerra civile? Non ho avuto il coraggio di chiedergli se sapeva quello che era successo nel resto del Paese, giusto durante i primi quattro mesi dell’anno: forse in quel luogo di pace la notizia non era arrivata, non volevo turbarlo).
Siccome non ci aspettava, non aveva niente di preparato: ci ha tirato giù qualche cocco dall’albero e ce li ha dati da bere, mentre andava a pescarci qualche aragosta, uno squaletto e dei granchi che si riveleranno insuperabili.
Intanto che Michel prepara, io, Caio e Lina andiamo in esplorazione. Camminiamo lungo la spiaggia per un paio di chilometri: alla nostra sinistra l’Oceano, la corrente è violentissima, camminando sul bagnasciuga si ha la sensazione di essere trascinati via dalla risacca. Sotto i nostri piedi una sabbia a grana grossa, vi si possono riconoscere ancora i frammenti di conchiglia che l’hanno generata; a tratti il colore varia, dall’oro, al rosso, al nero… sembra quasi vulcanica, ma forse è solo petrolio, arrivato fino in questo luogo incontaminato.
In alcuni punti si sono accumulati massi dalle forme bizzarre: sembrano monoliti, non sono scolpiti (se non dal vento) ma ricordano i testoni dell’Isola di Pasqua; alcuni paiono teglie per far cuocere i biscotti, con tante conchette tonde (forse la famosa goccia che scava la roccia).
Alla nostra destra, il limitare della foresta, in cui ogni tanto si aprono dei varchi, attraverso i quali si intravedono capanne, bimbi che giocano in pozze d’acqua dolce, qualcuno (anche adulto) che fa la cacca senza troppo pudore. La solita vita di villaggio, insomma!
Sopra di noi: un cielo turchese, un sole splendente, qualche nuvola bianca e voli di rapaci che paiono aquile.
Potrebbe essere il set perfetto per un film di fantascienza: si potrebbe ambientare tanto in epoca giurassica, quanto in un futuro post-atomico. E di fatti, inerpicandoci su per una scogliera che segna la svolta bella baia, scopriamo un’altra spiaggia su cui è conficcato l’enorme relitto di una prua arrugginita, con la punta che indica lo spazio: più che naufragata, sembra piombata giù dal cielo e potrebbe essere successo anche secoli addietro: mi fa venire in mente la scena finale de “Il Pianeta delle Scimmie”. Ma purtroppo (o per fortuna), di scimmie in giro non se ne vedono, quindi andiamo ad abbuffarci.
Dopo una giornata alla Robinson Crosue (appena un po’ più attrezzato) torniamo all’hotel di Sassandra (da Michel si potrebbe anche dormire, ma mancano cose banali come l’aria condizionata e il bagno).
Qui ritroviamo il cameriere che ci ha servito la cena la sera prima, e la colazione quel mattino, e che abbiamo visto alla reception e fare molte altre cose, in qualunque mansione, location e orario dell’albergo. Ha sempre un’aria pigra e scocciata (comune a molti camerieri di qui), ma non antipatica né tanto meno tonta (anch’essa molto diffusa nella categoria). Cerco di immaginarmi la sua storia: lui, maitre d’un albergo fortunato ai tempi d’oro in cui i turisti riuscivano ancora a percorrere la strada per arrivare fin qua; ora rimasto ultimo eroico kamikaze a smazzarsi tutto il lavoro, costretto a lavorare quindici ore al giorno (per una paga che forse non è cambiata negli ultimi trent’anni) e a servire cena a una banda come la nostra. Cerco allora di immaginarmi come lui possa vederci: un gruppo eterogeneo per sesso, stirpe, età (dai 6 ai 72 anni) e casino che i suoi membri sono in grado di generare (chi salta, balla e canta mentre mangia –Mary-, chi ripensa le ordinazioni una dozzina di volta ma poi ricade sempre sui gamberi, chi litiga o forse sta scherzando a voce un po’ troppo alta).
Si va a dormire presto e ci si sveglia ancora più presto: gli ippopotami ci aspettano!
Partiamo all’alba su una piroga a motore e risaliamo un tratto del fiume che dà il nome alla località. Dopo svariati quarti d’ora di spettacoli paesaggistici, dei pachidermici animali, manco l’ombra.
Allora accostiamo: le acque si fanno troppo basse in quel tratto. Meglio proseguire a piedi. “A piedi? Ma non era previsto!” (coro ignorato). Così, in sandali e calzoncini corti ci addentriamo nella giungla, con la guida a farci il sentiero a colpi di macete, tra serpenti e formiche carnivore (e non è un’iperbole!). Fino ad arrivare in una bellissima casa, su un isolotto nel bel mezzo del fiume: di listelle di legno d’un azzurro slavato, immersa nel verde e affacciata su un’ansa tranquilla e chiusa da altri isolotti. Sembra un cottage di campagna, potrebbe essere la base per un film dell’orrore se non ispirasse tutta quella tranquillità. È chiusa, era di un francese che adesso se ne è andato, dove? Quando? Boh! Però è vissuta: ci sono scarpe vicino alla porta, attrezzi usati di fresco. Chi mai, oltretutto europeo, verrebbe a rintanarsi qui? Sicuramente uno che fugge da qualcosa, forse un collaborazionista di Vichy… Mistero.
Ma: attenzione! Dalla veranda si vede qualcosa, laggiù in fondo all’ansa; qualcosa che si muove. Vi giuro che è un ippopotamo, anzi sono due… o forse tre. Insomma: provate voi a decifrare le foto con lo zoom al massimo.
Al pomeriggio torniamo da Michel, quindi all’hotel: Alì, il cameriere scazzato, sembra stranamente di buon umore. Forse perché qualcuno osa ordinare qualcosa di diverso dai gamberi, forse il cuoco (unico sopravvissuto del passato glorioso a condividere con lui le pene dell’albergo) odia cucinare gamberi e diventa di cattivo umore quando è costretto a farli e vessa Alì (che ovviamente collabora anche con la cucina) con le sue frustrazioni. O forse è semplicemente contento che il mattino dopo ci leviamo dalle palle. Non prima di aver cambiato la gomma che qualcuno ci ha tagliato (escludo sia stato Alì, non aveva tempo né movente; indirizzo i miei sospetti più su uno schivo bianco bassamoise che alloggiava anche lui lì. Nemmeno lui aveva un movente, ma mi è sembrato molto antipatico).