lunedì 12 dicembre 2011

Notizie dall'Italia, notizie dalla Costa d'Avorio

Sempre da una che continua a seguire le notizie italiane da molto lontano (e nemmeno più con tanta passione): mi sembra di poter dire che il primo risultato positivo del Governo Monti sia stato quello di riunire i sindacati.
Anche non rivedere più così spesso il faccione di Berlusconi sparato in prima pagina, migliora l’umore.
Bisogna accontentarsi di poco. D’altronde si sapeva fin dall’inizio chi fosse Monti: un economista classico, quindi non con “ricette” particolarmente innovative. Ma l’abbiamo preferito (a torto o a ragione, non lo so ancora) al nano malefico.
Per quanto riguarda poi la crisi economica… beh, ci sono abituata: prima perché ero studentessa; poi perché ero precaria; e ora perché sono disoccupata, in un Paese appena uscito da una guerra civile, e con un sacco di altri problemi: sempre sull’orlo del baratro, ma si tira avanti.
A proposito del Paese appena uscito dalla guerra civile: ieri qui si sono tenute le elezioni legislative… (suspence: gente che si chiede cosa sarà successo; “sarà stato un casino come lo scorso anno?”; “ho sentito che da qualche parte in Africa c’è tensione per delle elezioni contestate e due che si proclamano entrambi presidenti; “No,ma è in RD Congo”; “Sì, in effetti, capita spesso”; ma soprattutto gente che dice: “Embeh?”).
Tutto tranquillo (a parte il fatto che avevamo un centinaio di gendarmi accampati nel cortile di casa); anche perché, nella maggior parte delle circoscrizioni, non c’era vera competizione elettorale: già il partito di Gbagbo era un po’ allo sbando, dopo la sconfitta alle presidenziali del 2010, la crisi politico-militare (qui la chiamano così) e l’incarcerazione dell’ex presidente. Poi, col trasferimento di quest’ultimo al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, anche quei pochi candidati dell’FPI si sono ritirati per protesta.
Ma la vera notizia del mese è la pagella di Marysol: è la prima della classe!
E badate, non è il cuore di mamma a parlare: qui hanno la discutibile usanza di fare le classifiche di merito, fino al punto che sulla pagella stessa è segnato il punteggio totalizzato nel trimestre, dato dalla somma dei voti riportati per ogni materia. Mary ha ottenuto 64 punti su 70, piazzandosi – come precisato sul bollettino – prima su 35.
Ora: io ho sempre avuto una certa antipatia per le prime della classe (anche perché lo sarò stata forse solo alle elementari, e comunque a parimerito con almeno altre due persone; già alle medie ero l’eterna seconda; per poi calare a metà classifica nel corso del liceo).
Inoltre ritengo che ci siano metodi diversi per stimolare la competizione (o se non altro, meno umilianti per chi è ventesimo o giù di lì) e che comunque sia più importante incoraggiare la cooperazione, piuttosto che la rivalità.
Ma in ogni caso sono molto orgogliosa della mia piccolina, che (unica straniera nella sua scuola) si fa valere!

domenica 13 novembre 2011

Alla mia vecchia redazione

È in questi momenti che mi mancate. Quando scorro le notizie su Repubblica.it, per esempio: Berlusconi si è dimesso (meglio –troppo- tardi che mai!), ecc.
Mi immagino il fermento in redazione: Andrea con quattro cornette del telefono tenute due a due sulle orecchie con le spalle mentre digita sulla tastiera e segue le altre tv; un vociare da MilanoFinanza; Marina che parla a mitraglia dalla sua postazione; la Pira che sgambetta in giro; Melzi che sbraita al telefono e poi si trascina pesantemente nelle sale di montaggio; Gaio che, forse grazie al nome, riesce sempre a strappare una risata generale, anche nei momenti di maggior tensione; Carlos che aggiorna i pezzi del giornalino (i redattori del giornalino che se ne vanno in mansarda a fumare); qualcuno che inveisce contro Documentum; battutacce tra la regia e l’infografica; le signorine di ClassLife immuni a tutto tranne che alle sfilate di moda. E Franco. Seppur affranto per la caduta del “suo” Presidente del Consiglio, sta col fiato sul collo di tutti; come sempre… Anzi: più del solito!
Tante cose sono cambiate in questi due anni (e non parlo del digitale terrestre divenuto finalmente una realtà –chissenefrega-): io vivo nella brousse di un Paese in cui per “dimissionare” il presidente che aveva perso le elezioni, hanno fatto una guerra civile (un pochino più “esiziale”, ma si tratta pur sempre di un Paese di sudditi che amano il tiranno e quando cade lo calpestano); e seguo le notizie dell’Italia su internet, quando funziona. Lì, invece, ci sarà un palinsesto tutto nuovo, un sacco di gente diversa, un’organizzazione differente.
Ma mi ricordo una cosa che forse lì è rimasta e di cui, in questi momenti, sento la mancanza: l’adrenalina che si respirava quando la redazione veniva investita da una notizia importante. Era come una delle tempeste che si registrano qui: vedi addensarsi nuvoloni scuri all’orizzonte; li fissi e aspetti che arrivino; ti prepari, tendi tutti i muscoli in attesa di sentire il tuono che dà il via allo scroscio di pioggia; e quando finalmente arriva, il vento fa volare tutti i fogli e, come su una nave in balia dei marosi, tutti si dimenano per mantenere la rotta.
Mi ricordo l’11/9. Io ero ancora in stage, avevo avuto l’incarico di montare le macchie: vedere quei video prima che andassero in onda, mi faceva sembrare tali immagini paradossalmente più vere. Stavo assistendo alla Storia in prima fila, mentre Dario e Usai non riuscivano a spiegare (perché era impossibile farlo) ciò che stava accadendo. E Nicola era risalito dallo studio con la faccia della volpe che si è appena mangiata il pollo.
Oppure il G8 di Genova: quando in riunione di redazione ho confessato che “io c’ero” (non potendo tacere nel sentire “giudizi sommari” su Carlo Giuliani), ne è nata una discussione col Taglia, durata 8 anni.
Ma parlo di 1.000.000 d’anni fa!
Chissà adesso cosa sta succedendo lì da voi…
“Non ho immaginiiiiii!!!!”
Quante volte ho sentito riecheggiare questo grido disperato (quando saltavano i feed, quando si perdevano le cassette d’archivio,…)!
E ora sono io che lancio quel grido: il mio meraviglioso mondo da 20.000 leghe sotto i mari è completamente alieno da tutto ciò: niente Tg (“Come ha aperto il TG5? E Sky?”; “Ma hai visto Minzolini? Non si smentisce mai!”); perfino i video su internet sono preclusi dalle connessioni lente.
Cosa non darei per vedere la faccia del Cavaliere, finalmente senza quel sorriso da iena!
E per la prima volta, dopo due anni, vorrei essere lì. Solo per un momento, anche solo da spettatrice, e poi ritornare col mio Nautilus in Costa d’Avorio. Vorrei essere lì per respirare ancora quell’adrenalina, quello spirito di gruppo che (nonostante tutto), nei momenti gravi saltava fuori.
Ma soprattutto, per stuzzicare Franco: anche gli spread sono comunisti? E del “compagno” Monti che ne pensi? (personalmente ritengo che anche Topo Gigio in questo momento sarebbe meglio del Berlusca, ma continuo a sperare che in Italia prima o poi nascano dei politici veri).

mercoledì 9 novembre 2011

Abissàààààààà

Con la banda al gran completo ci apprestiamo a festeggiare l’Abissa.
Ritrovo al magasin di Yakou che ci accoglie con magliette e braccialetti per l’occasione. Quindi si prende in braccio la piccola, stende su tutti gli altri la sua ala di angelo custode e ci porta alla scoperta del dedalo di viuzze del quartiere coloniale.
L’Abissa è la festa annuale del popolo N’zima: il momento in cui il re di Quartier France (il quartiere coloniale, appunto, nonché capitale del regno N’zima) esce per incontrare la sua gente, giunta da tutta la Costa d’Avorio (e confini vari). Questi gli faranno le loro rimostranze, una sorta di bilancio annuale del regno; la loro forma di democrazia. Stando, almeno, alla spiegazione di Jonas (uno dei nostri educatori che è nel comitato organizzatore della festa). Secondo altre fonti (vd http://www.abissafestivale.com/Abissa.htm, very interesting), è il momento in cui tutti confessano a tutti i propri peccati e chiedono assoluzione e benedizione.


In ogni caso, si tratta di una specie di carnevale (progenitore forse di quelli caraibici o di New Orleans): gli uomini si travestono da donna, altri si mascherano con pasta, attieké, pop corn, scatole di fiammiferi o di sigarette, perfino con orsacchiotti o macchinine a pedali in testa! Tutti (quindi anche noi) si dipingono il volto con l’argilla, bevono e ballano ovunque per le strade. E ogni tanto bisogna gridare: "Abissààààààà" e ridere.


Noi entriamo subito nello spirito della festa: Yakou ci porta in una corte dove degli amici suoi hanno improvvisato un bar abusivo ed estemporaneo per la ricorrenza. E lì ci spariamo la prima bottiglia di orangin (koutoukoù –cioè grappa di palma- e succo della passione), che ormai nel mio cuore ha preso il posto del Pastis.
Poi andiamo verso la piazza dell’Abissà, in tempo per vedere sfilare il re: una processione variopinta e semiseria, in cui le persone agghindate in modo eccentrico (anche per loro), si mescolano alla cheferie e agli altri notabili che accompagnano il re. Tutti i membri della corte reale indossano l’abito tradizionale (una sorta di tunica all’antico romano, di una stoffa a fantasia geometrica verde, rossa e oro) e portano uno scettro, probabilmente in polistirolo, dipinto anch’esso d’oro. La corona del sovrano è dello stesso materiale, ma di una pretenziosa forma a fortilizio con torrioni.
Dopo il suo passaggio, ci scateniamo in danze a suon di tam-tam e fischietto. Io mi sento abbastanza impedita, ad affondare nella sabbia nel tentativo di imitare le migliaia di sederi, di ogni sesso ed età, che mi tamburellano intorno, vibrando come fossero tanti budini staccati dal resto del corpo e perfettamente sintonizzati sui ritmi sincopati della musica. Mary, invece, che si è sparata una bottiglia di coca-cola (per lei l’equivalente del nostro orangin, e quindi era eccitatissima), era perfettamente a suo agio: una nanetta bianca con t-shirt formato vestito da sera, che si agita in mezzo alla folla… inutile dire che abbiamo attirato piacevolmente l’attenzione.
Verso le sette di sera, ci sediamo ad un maquis per prendere fiato, mangiare un polletto alla brace e osservare la via principale del quartiere trasformata in un’animata sagra di paese.
Nel frattempo, Leo Mary e Nucci sono venuti a casa a dormire e noi, con altri amici che intanto ci hanno raggiunti, torniamo nella corte dell’orangin a spararci un paio d’altre bottiglie. Anche lì c’è musica: Zouglou, una sorta d musica tradizionale africana su ritmi techno… veramente inascoltabile! Ma non c’è problema: basta dirlo a Yakou, lui parte, va a parlare col dj e torna sulle note di Tiken Jah.
Dopo aver dato il meglio di noi in quel posto, abbiamo pensato di deliziare con la nostra allegria anche un altro localino, dove abbiamo trovato Ka-Jim, un cantante in voga da queste parti. Fa la sua comparsata con un paio di pezzi, poi lascia il microfono a un signore con una caldissima voce blues. Anche lì si balla e si beve fino allo sfinimento, quindi si torna alla piazza dove sapevamo che Ka-Jim avrebbe cominciato un vero e proprio concerto. Arriviamo in tempo per riuscire a sistemarci in prima fila, procurarci dei bicchieri e cercare di convincere la star (mentre sta cantando sul palco, l’idea infelice è di Caio) a farci un autografo su una foto, formato A4, spuntata da non so dove, che ritrae un Yakou giovanissimo al suo fianco. Fortunatamente prima che arrivino i gorilla della sicurezza, si mette a piovere e ce ne andiamo: chi in un’altra discoteca, chi (come la sottoscritta) a dormire (ormai sono le 4 di mattina!).
Buona Abissa a tutti!

mercoledì 2 novembre 2011

Sassandrà

Ore 8.15, partenza per Sassandra. Con solo un quarto d’ora di ritardo sulla tabella di marcia, ci avviamo alla scoperta della “Riviera di Ponente” della Costa d’Avorio.
Il viaggio è lungo: anche se sono solo 300 km circa, si tratta di attraversare tutta Abidjan (col suo solito traffico caotico) e di percorrere strade, asfaltate quando ancora c’erano i colonialisti. Ora, dopo 50 anni, due colpi di stato e un paio di guerre civili, per lunghi tratti il tragitto è sterrato o si apre improvvisamente in voragini in cui la macchina entra completamente e ne riesce piano piano. Se non si sta attenti si rischia di lasciarci il mezzo e la schiena.
Il paesaggio è comunque incantevole: lasciata la capitale economica alle spalle, il panorama inizia a farsi collinoso. Per me e Caio, abituati all’orizzonte sinuoso del nostro Piemonte, poter rivedere qualcosa di diverso dal piatto acquitrino in cui affonda Bassam è una vera emozione. E come sul mio Appennino, la statale sale e scende tra i boschi. Unica differenza è che là ci sono castagni, querce e abeti; qui alberi della gomma, palme, manioca, fromagé (una specie di ceiba sotto cui si riuniscono i villaggi a parlamentare). In alcuni momenti sembra che la vegetazione vinca contro il bitume e la strada si restringe, divorata dagli arbusti. In altri si passa sotto gallerie di rami.
Così per 9 (nove!) ore (con pausa per il pranzo). Per fortuna dal nostro archivio magnetico abbiamo tirato fuori una colonna sonora degna di un film on the road: Bob Marley, Rolling Stones, misto anni ’80, cantautori italiani, canzoni di lotta e protesta (Mary va matta per “Compagni dai campi e dalle officine…”; la sa tutta!).
Arrivati, scopriamo che il nostro hotel (oltre ad essere molto dignitoso) è dotato di terrazze panoramiche sul mare e sull’estuario del fiume, offre dei gamberi che sono la fine del mondo e ospita anche una famiglia italo-ivoriana: la piccola trova subito pane per i suoi denti, due bimbi scatenati quanto lei. È bellissimo vederli scorrazzare urlandosi dietro frasi per metà in francese, per l’altra metà in bresciano.
Il giorno dopo andiamo alla ricerca della Godé Plage, una spiaggia di cui ci hanno molto ben parlato, ma molto ben nascosta. Dopo vari tentativi, indicazioni fasulle (qui nessuno mai ti dice: “Non so”, piuttosto inventano) e un’oretta di pista nella giungla, arriviamo al Paradiso: infinita spiaggia dorata orlata di palme, deserta e selvaggia.
Qui vive Michel Godé, un uomo che sembra un barbalbero: fisico magro e nervoso, il tronco che sembra proprio quello di uno delle piante che abbiamo appena visto sfilare nella giungla, incrostato di liane di tendini. Dice di avere 36 anni, ma forse sono 46 ben portati; ha lavorato per anni sulle navi, facendo un po’ di tutto, anche il cuoco. E poi è venuto a stabilirsi qui. Inutile chiedersi perché proprio qui: è il primo impulso di chiunque vi metta piede.
Lui ha impiantato un albergo. Noi eravamo i suoi primi e unici clienti da quando aveva aperto; in marzo, mi pare mi abbia detto (se sul dove la risposta è facile, sul quando lascia perplessi: in piena guerra civile? Non ho avuto il coraggio di chiedergli se sapeva quello che era successo nel resto del Paese, giusto durante i primi quattro mesi dell’anno: forse in quel luogo di pace la notizia non era arrivata, non volevo turbarlo).
Siccome non ci aspettava, non aveva niente di preparato: ci ha tirato giù qualche cocco dall’albero e ce li ha dati da bere, mentre andava a pescarci qualche aragosta, uno squaletto e dei granchi che si riveleranno insuperabili.
Intanto che Michel prepara, io, Caio e Lina andiamo in esplorazione. Camminiamo lungo la spiaggia per un paio di chilometri: alla nostra sinistra l’Oceano, la corrente è violentissima, camminando sul bagnasciuga si ha la sensazione di essere trascinati via dalla risacca. Sotto i nostri piedi una sabbia a grana grossa, vi si possono riconoscere ancora i frammenti di conchiglia che l’hanno generata; a tratti il colore varia, dall’oro, al rosso, al nero… sembra quasi vulcanica, ma forse è solo petrolio, arrivato fino in questo luogo incontaminato.
In alcuni punti si sono accumulati massi dalle forme bizzarre: sembrano monoliti, non sono scolpiti (se non dal vento) ma ricordano i testoni dell’Isola di Pasqua; alcuni paiono teglie per far cuocere i biscotti, con tante conchette tonde (forse la famosa goccia che scava la roccia).
Alla nostra destra, il limitare della foresta, in cui ogni tanto si aprono dei varchi, attraverso i quali si intravedono capanne, bimbi che giocano in pozze d’acqua dolce, qualcuno (anche adulto) che fa la cacca senza troppo pudore. La solita vita di villaggio, insomma!
Sopra di noi: un cielo turchese, un sole splendente, qualche nuvola bianca e voli di rapaci che paiono aquile.
Potrebbe essere il set perfetto per un film di fantascienza: si potrebbe ambientare tanto in epoca giurassica, quanto in un futuro post-atomico. E di fatti, inerpicandoci su per una scogliera che segna la svolta bella baia, scopriamo un’altra spiaggia su cui è conficcato l’enorme relitto di una prua arrugginita, con la punta che indica lo spazio: più che naufragata, sembra piombata giù dal cielo e potrebbe essere successo anche secoli addietro: mi fa venire in mente la scena finale de “Il Pianeta delle Scimmie”. Ma purtroppo (o per fortuna), di scimmie in giro non se ne vedono, quindi andiamo ad abbuffarci.
Dopo una giornata alla Robinson Crosue (appena un po’ più attrezzato) torniamo all’hotel di Sassandra (da Michel si potrebbe anche dormire, ma mancano cose banali come l’aria condizionata e il bagno).
Qui ritroviamo il cameriere che ci ha servito la cena la sera prima, e la colazione quel mattino, e che abbiamo visto alla reception e fare molte altre cose, in qualunque mansione, location e orario dell’albergo. Ha sempre un’aria pigra e scocciata (comune a molti camerieri di qui), ma non antipatica né tanto meno tonta (anch’essa molto diffusa nella categoria). Cerco di immaginarmi la sua storia: lui, maitre d’un albergo fortunato ai tempi d’oro in cui i turisti riuscivano ancora a percorrere la strada per arrivare fin qua; ora rimasto ultimo eroico kamikaze a smazzarsi tutto il lavoro, costretto a lavorare quindici ore al giorno (per una paga che forse non è cambiata negli ultimi trent’anni) e a servire cena a una banda come la nostra. Cerco allora di immaginarmi come lui possa vederci: un gruppo eterogeneo per sesso, stirpe, età (dai 6 ai 72 anni) e casino che i suoi membri sono in grado di generare (chi salta, balla e canta mentre mangia –Mary-, chi ripensa le ordinazioni una dozzina di volta ma poi ricade sempre sui gamberi, chi litiga o forse sta scherzando a voce un po’ troppo alta).
Si va a dormire presto e ci si sveglia ancora più presto: gli ippopotami ci aspettano!
Partiamo all’alba su una piroga a motore e risaliamo un tratto del fiume che dà il nome alla località. Dopo svariati quarti d’ora di spettacoli paesaggistici, dei pachidermici animali, manco l’ombra.
Allora accostiamo: le acque si fanno troppo basse in quel tratto. Meglio proseguire a piedi. “A piedi? Ma non era previsto!” (coro ignorato). Così, in sandali e calzoncini corti ci addentriamo nella giungla, con la guida a farci il sentiero a colpi di macete, tra serpenti e formiche carnivore (e non è un’iperbole!). Fino ad arrivare in una bellissima casa, su un isolotto nel bel mezzo del fiume: di listelle di legno d’un azzurro slavato, immersa nel verde e affacciata su un’ansa tranquilla e chiusa da altri isolotti. Sembra un cottage di campagna, potrebbe essere la base per un film dell’orrore se non ispirasse tutta quella tranquillità. È chiusa, era di un francese che adesso se ne è andato, dove? Quando? Boh! Però è vissuta: ci sono scarpe vicino alla porta, attrezzi usati di fresco. Chi mai, oltretutto europeo, verrebbe a rintanarsi qui? Sicuramente uno che fugge da qualcosa, forse un collaborazionista di Vichy… Mistero.
Ma: attenzione! Dalla veranda si vede qualcosa, laggiù in fondo all’ansa; qualcosa che si muove. Vi giuro che è un ippopotamo, anzi sono due… o forse tre. Insomma: provate voi a decifrare le foto con lo zoom al massimo.
Al pomeriggio torniamo da Michel, quindi all’hotel: Alì, il cameriere scazzato, sembra stranamente di buon umore. Forse perché qualcuno osa ordinare qualcosa di diverso dai gamberi, forse il cuoco (unico sopravvissuto del passato glorioso a condividere con lui le pene dell’albergo) odia cucinare gamberi e diventa di cattivo umore quando è costretto a farli e vessa Alì (che ovviamente collabora anche con la cucina) con le sue frustrazioni. O forse è semplicemente contento che il mattino dopo ci leviamo dalle palle. Non prima di aver cambiato la gomma che qualcuno ci ha tagliato (escludo sia stato Alì, non aveva tempo né movente; indirizzo i miei sospetti più su uno schivo bianco bassamoise che alloggiava anche lui lì. Nemmeno lui aveva un movente, ma mi è sembrato molto antipatico).

domenica 16 ottobre 2011

"Il sindaco è risorto"

In realtà la notizia non è di quelle su cui si possa fare ironia: il sindaco di Grand Bassam, uno dei rari casi di buon amministratore, nonché amico della Communauté, è morto tragicamente (a un mese dalle elezioni).
Ma, come sempre da queste parti, le circostanze in cui si verifica un evento sono del tutto peculiari. A partire da quelle della scomparsa: sabato mattina, Jean Michel Moulod si stava recando ad un funerale, dall’altra parte della laguna; poi sarebbe dovuto venire da noi per la tappa conclusiva della Carovana della Pace. Invece è giunta la notizia che il sindaco si è rovesciato con la piroga a motore su cui viaggiava ed è annegato.
L’iniziativa che si stava svolgendo al Carrefour Jeunesse, naturalmente è stata interrotta: Leo ha riunito i partecipanti nella Sala e ha dato la ferale notizia; sono seguite scene di commozione e incredulità. Una donna si è accasciata a terra piangendo; non so se sia una reazione codificata, tipo il battersi il petto per il lutto nel nostro Meridione. Sicuramente erano tutti molto toccati, noi in primis: Leo e i due amici di Vinovo avevano pranzato da lui appena la settimana scorsa; ci sembrava impossibile che fosse morto e per giunta in modo così stupido (non che ci siano modi intelligenti per farlo, ma pensare a un uomo della sua importanza che muore come uno dei tanti poveracci di qua, ci faceva venire in mente “’a livella” di Totò, ma non ci consolava).
Oltretutto iniziavano ad emergere i primi raccapriccianti dettagli: pochi minuti dopo essere partita, l’imbarcazione si è rovesciata; uno degli uomini del sindaco è riuscito a trarlo in salvo sulla chiglia; ma il meccanico, che stava invece affogando, si è aggrappato alle sue gambe, trascinandolo in profondità. I due corpi non sono ancora stati ritrovati.
Ora, dovete sapere che qui la principale spiegazione di ogni avvenimento, anche tra persone istruite, è la magia (purtroppo non nella accezione favolistica di Marysol): la persona che muore improvvisamente è stata sicuramente avvelenata; magari aveva una malaria trascurata o era affetta da HIV e non lo sapeva, ma la domanda resta sempre: “Perché a lei e non a qualcun altro?” e la risposta è: “Perché un sorcier le ha fatto il malocchio”. Oppure: un’altra persona mostra segni di squilibrio? È posseduta dagli spiriti (non che magari è sotto choc per qualcosa).
Una volta un tassista mi ha chiesto una ciocca di capelli perché gli servivano per curarsi; spesso vedo i resti di sacrifici agli incroci delle strade; qualche volta –mi raccontano- questi sacrifici sono cruenti. E i lavori dello stadio sono bloccati perché non si riesce a decidere chi deve celebrare il culto di avvio. E l’altro giorno un gruppo di Abourè e uno di N’zhima, si sono scontrati perché tutti volevano fare un rito di purificazione di una casa infestata dai “genies” e ci è scappato il morto (“Si ammazzano perché non si mettono d’accordo su chi deve parlare coi fantasmi” è stato il lapidario commento di Leo).
La magia, insomma, occupa uno spazio molto importante in questa cultura, condiziona molti passaggi anche della vita civile e talora diventa causa di dispute.
Per questi motivi e per le circostanze suggestive della morte del sindaco (cadavere che non si trova, vicinanza delle amministrative), ci preoccupavamo di come potesse essere interpretato questo fatto, delle eventuali ritorsioni che avrebbe potuto provocare, dei riflessi che avrebbe potuto avere sulle prossime elezioni, delle conseguenze che avrebbe comportato sui progetti che si portano avanti con la Mairie.
Quindi, quando qualche ora dopo, è giunta la notizia che il sindaco era stato ritrovato vivo, per un attimo abbiamo pensato che fosse risorto (e quindi destinato a rimanere sindaco a vita, considerato un demone dai suoi oppositori).
Purtroppo è subito arrivata la smentita: il rumor era forse giustificato dal fatto che, secondo alcuni, nei popoli lagunari coloro che muoiono in acqua non hanno diritto al funerale. Oppure perché, come per tutte le personalità importanti, prima di confermarne la morte si aspetta di esserne assolutamente certi. E finché non si trova il cadavere le dicerie sono aperte a ogni ipotesi: anche che il sindaco è risorto ma come puro spirito.Io mi limito a dirgli rispettosamente addio.

mercoledì 12 ottobre 2011

Dario, Stefano e la "festa bestiale"

Uno dei tanti privilegi di questa mia vita “africana” è avere la possibilità di conoscere continuamente un sacco di gente. È una cosa che mi è sempre piaciuta. E qui mi capita di continuo. Il contesto sicuramente lo favorisce: anche solo per il fatto di essere “una mosca bianca”, le persone mi fermano per la strada e si mettono a parlare. Per lo più lo fanno per vendermi delle cose, ma ogni tanto semplicemente per curiosità (siamo noi ad avere paura del diverso, non i diversi da noi!).
Ma non è solo questo: in questa atmosfera ci deve essere qualcosa che permette per esempio che dall’Italia arrivino due perfetti sconosciuti e che nel giro di qualche giorno diventino cari amici. O forse è solo merito, in questo caso, dei soggetti in questione: Dario e Stefano, un duo perfetto, uno più timido, l’altro più espansivo, uno che sa bene il francese, l’altro che ha esperienza di viaggi; uno consigliere comunale e storico dell'arte, l'altro infermiere-colonnello di pronto soccorso; entrambi simpaticissimi, brillanti e stra-disponibili a farsi accogliere in questa casa di matti, in un Paese alieno.
Da Vinovo, una cittadina piemontese che finanzia alcuni progetti della Communauté, ci avevano chiesto di ospitare questi due baldi giovani, di cui non sapevamo alcunché, nemmeno il motivo preciso della loro visita (turismo, volontariato, curiosità?). Ci siamo trovati subito in sintonia e abbiamo passato insieme due settimane, molto piacevoli (credo – e spero – anche per loro).
Abbiamo cercato di accompagnarli in giro per questo nostro mondo di scorci suggestivi – certo – e spiagge assolate e mercati pittoreschi; ma anche di quartieri precari, di progetti testardi, di bambini scalzi, di questuanti assillanti, di personaggi folkloristici, di situazioni assurde, di corruzione, di formiche carnivore, di acqua che manca, di immondizia in giro… Nell’insieme sembra che gli sia piaciuto e anche a me è piaciuto molto condividere tutto ciò. (Il che mi fa anche pensare che sarebbe stupendo riuscire a far decollare il progetto di turismo responsabile che qui è rimasto in fase embrionale: vuoi una vacanza alternativa tipo Isola dei Famosi ma senza Vip siliconati? Vieni nella Casa del Piccolo Cooperante!).

Prima ho usato l’espressione “cari amici”: con questo non voglio essere retorica; i “grandi amici” sono quelli che conosci da anni, con cui hai diviso fasi cruciali della vita e con cui ti scambi spalle su cui piangere nei momenti critici; i “cari amici” sono quelli con cui ti sei incrociata e sei stata molto bene e quando li hai salutati ti è dispiaciuto, e anche quando non li incroci più (spero comunque che non sia questo il caso), li ricorderai sempre con grande affetto e simpatia.


Nel caso specifico, forse non era del tutto percepibile il mio dispiacere al momento dei saluti: in quanto ero ubriaca fradicia.
Il giorno della loro partenza Marysol ha infatti avuto la geniale idea di dare una festa (come sapete ha grande esperienza in materia in quanto ne organizza settimanalmente per pupazzi e amichette). Tema: gli arrivi (perché giustamente si festeggiava il fatto che fossero arrivati, più che stessero partendo) e animali (nel senso che ci si doveva mascherare). Il che ha fatto diventare l’evento una… “festa bestiale”!
Il programma della serata (che più che una serata era un tardo pomeriggio, visto che dovevano lasciare Bassam alle 23.00… per cui io ho iniziato a mescere Pastis alle 4 del pomeriggio…) prevedeva: preparazione paté di tonno (inconfondibile tache di Caio), confezionamento maschere (Lina, io, Mary e Nucci), presentazione e animazione (Mary e Stefano), sfida tra me e Caio a chi riesce a farsi stare più chipsie in bocca (ho perso con un dignitosissimo 35 a 57), gara di Limbo (abbiamo registrato una vertebra fratturata, quella di Leo al suo primo tentativo e l’inequivocabile vittoria di Lina, se non altro per l’eleganza del suo stile che tradisce un passato da ballerina), danze sfrenate (qui a dare il meglio di sé è stato Stefano [tutto ciò, presto su youtube!]), …
Il resto del programma non me lo ricordo: a quel punto ero già al quinto bicchiere di pastis. Quindi il mio personalissimo programma è stato: ballare come una tarantolata, fare un pippone (nel senso di discorso molto serio, personale e noiosissimo per chi lo ascolta) a Caio (non ricordo su che cosa, ho il video comunque [che NON metterò su youtube]), farmi accompagnare da Leo in bagno a vomitare (ma questo non è legato al pippone di cui sopra), lavarmi i denti, tornare in sala e addormentarmi su dei cuscini del divano, stesi per terra. Non credo sia successo altro, ma ho dei ricordi piuttosto annebbiati.
Secondo voi qual era la maschera più bella?
Ciao dario! Ciao Stefano! (non ero sicura di essere riuscita a salutarli, alla festa)

martedì 27 settembre 2011

Mary ha un fidanzato

Io mi ricordo che fin da piccolissima ero soggetta a grandi innamoramenti: mi ricordo Enrico Pagella, mio compagno dell’asilo; oppure di quell’altro che giocava ai giardinetti con me e che chiamavamo Marcellino Pane e Vino (chissà perché); o di Andrea il brasiliano, un ragazzo “della compagnia dei grandi” che passavo ore a rimirare sotto la tettoia della spiaggia su cui ho trascorso le prime 14 estati della mia vita; o Emanuele Ghisolfi, il mio primo fidanzato (ma ero già in terza elementare!).
Marysol, invece, finora non aveva dato segni di innamoramenti, se non di amici/amiche, peraltro preferibilmente adulti (vedi Lina e Yakou).
Io un po’ mi preoccupavo, temevo di essere stata troppo “open mind” quando le permettevo di celebrare nozze tra i suoi pupazzi senza distinzioni di sesso, razza e numero (maschi con maschi, coccinelle con tigrotti, matrimoni a tre, ecc.).
Poi, ieri, mentre la osservavo giocare con la banda di teppisti su cui ha preso il potere, ho notato che c’era un ragazzino un po’ più grande di lei, che le stava sempre appresso e, anziché riempirlo di botte, lei lo prendeva per manina e giocavano in disparte.
Alla sera, ovviamente, Leo ha chiesto spiegazioni (è un padre all’antica per certe cose), prendendola alla lontana:
“Ho visto che giocavi con un bambino più grande. È simpatico?”
“È il mio fidanzatino” ha risposto, lasciandolo un po’ spiazzato e attirando su di lei quattro paia d’occhi.
“Cioè: non lo so se lui mi ama come io lo amo… non so neanche se lo amo io” (interrogativo universale degli innamorati, che non muta mai con gli anni).
Io, Caio, Lina e la nonna abbiamo iniziato a tempestarla di domande:
“Come si chiama?”
“Junior”
“Quanti anni ha?”
“Dieci… otto… forse 18!” [tra gli otto e i dieci, ndr]
“Cos’è che ti piace di lui?”.
“Beh, che anche a lui piace giocare a ‘ce l’hai’, a ‘strega comanda colore’, a ‘un due tre stella’… gli piace perfino giocare con le bambole!” (insomma: hanno molti interessi in comune).
Leo si è trattenuto dal chiederle se è di buona famiglia, sapendo che è un deplacé, proveniente da una delle zone più martoriate del quartiere di Abobo; se prima della guerra i suoi avevano qualcosa, ora quasi sicuramente l’hanno perso.
Dopo l'interrogatorio, Mary non riusciva più a prendere sonno (avevamo forse caricato troppe attenzioni su questo argomento?).
Il giorno seguente ha giocato tutto il giorno con lui, scattando anche alcune delle foto che vedete: “Che tipo intraprendente” ha commentato Caio.
Io ho cominciato a farle “educazione sessuale”: siccome le ho sempre detto che i bacini sulla bocca sono per i fidanzati, ho iniziato a introdurre il concetto del “quando avrai l’età giusta per farlo: tra una decina d’anni” (ho cercato di abbondare per sicurezza!).
Lei mi ha risposto che vuole scoprire le cose prima, per essere pronta al momento giusto, ma poi l’ho persuasa che è come aprire i regali prima di Natale: rimani senza sorprese.
Poi lui è dovuto partire per Abidjan, dove resterà fino a mercoledì. Nell’attesa, lei gli sta preparando un bel disegno.
“Ti mancherà?” chiede qualcuno.
Lei ci pensa un po’; e poi:
“Naaah, sono solo tre giorni!”
Ha anche cercato di convincermi ad invitarlo a cena (ogni riferimento al film con Spencer Tracy è assolutamente casuale) e di fronte ai miei dinieghi ha ribattuto: “Ma allora non potremo mai avere un appuntamento!”
Il giorno dopo ancora, vedendo che evitava l’argomento, le ho chiesto se stavamo violando la sua privacy e lei mi ha risposto che “no, semplicemente non c’è molto da dire: è tutto ancora così all’inizio!” (che saggezza!!!!).
Speriamo solo che non si inneschi una tragedia, quando i nostri deplaces dovranno sloggiare (Leo sta cercando di fissare una data, non so se solo per esigenze della Communauté o se per scoraggiare questa love – story).
Mi ricordo di quando ha cominciato a camminare, o a parlare, o a fare a meno del ciuccio: è stato all’improvviso, da un giorno all’altro possedeva quel sapere.
Ieri ha aggiunto a quel sapere il corso base di innamoramento.
Oggi ha imparato a nuotare: si è tolta i braccioli e si è fatta tutto il lato lungo della piscina fino a dove non tocca nemmeno la mamma (poi ha vomitato nella vasca per lo sforzo).
In questi mesi ha perfino messo due denti nuovi!
Insomma, io sono ancora qua che mi commuovo quando trovo dei suoi calzini che ormai vanno bene a Dado e lei già mi lancia delle nuove, stimolanti sfide: ok, io ci sono, sono pronta a accettarle. E lei lo sa (“Oltre a essere la mamma più bella del mondo sei anche una grande amica” mi ha detto l’altra sera dopo una lunga chiacchierata… confesso che mi è scappata una lacrimuccia).

sabato 24 settembre 2011

Ho finito il mio romanzo!

Ho finito il mio romanzo! È successo l’altra notte: dopo essere andati a mangiare un poluet braisé, aver bevuto molta birra, essere ritornati a casa e aver fatto “seratona” con Caio, Lina e Yakou, mi sono ritirata “nei miei appartamenti” e ho cominciato a segnarmi alcune idee; di quelle che ti vengono solo prima di addormentarti e ti sembrano geniali, ma poi il mattino dopo non te le ricordi più.
Questa volta ho avuto la prontezza di impugnare carta e penna prima che la palpebra calasse definitivamente e ho cominciato ad appuntarmi una scena: in genere funziona che prima mi immagino la situazione come in un film e poi la racconto, la descrivo, riporto i dialoghi, ecc.
Spesso succede che, in questa fase, il racconto prenda una strada completamente diversa da come l’avevo precedentemente immaginato, come se vivesse di vita propria e io fossi solo il tramite per mettere nero su bianco una storia che già esiste in un qualche iperuranio.
Anche l’altra sera (21 settembre, data simbolica da un punto di vista astronomico e ormai diventata storica per me) è successo più o meno così: l’appunto è diventato un pezzo, che se ne portava dietro un altro e un altro ancora.
La mano andava, la trama prendeva corpo più in fretta di quanto io ci potessi mettere per costruirla ed è comparso perfino un finale!
Avevo riempito una trentina di pagine (rigorosamente scritte a penna!), quando mia suocera è comparsa in sala, facendomi presente che erano le sei del mattino.
Poco male, l’essenziale c’era: si tratta solo di riempire qualche buco qua e là, cosa che farò man mano che ribatterò il manoscritto.
Il che può voler dire che la storia muterà ancora… per il momento si parla di una ragazza che scopre che il compagno la tradisce e cerca allora consolazione nell’amica (io, ma sono solo una comparsa) che vive in Africa da due anni; qui salirà sul nostro train de vie, senza sapere bene dove sta andando e senza esserne troppo entusiasta; poi si chiarisce alcune idee sulla sua esistenza, avrà una torrida storia di sesso con un ivoriano, sarà coinvolta nelle vicende di questo Paese e… finale a sorpresa! Ho cercato di supplire alla banalità del plot con una costruzione alla Lost: time line parallele, flashback, flashforward e uno stile un po’ surreale.
Sono discretamente soddisfatta: non so se è un buon romanzo (probabilmente no), ma l’ho portato a compimento ed è già un risultato.
Nelle ultime settimane la scrittura era andata un po’ a rilento. Facevo fatica ad immaginarmi l’evoluzione della storia, quindi andavo avanti a piccoli pezzettini, che me ne facevano venire in mente altri; ma non sapevo dove questi mi avrebbero portato, temevo di non arrivare da nessuna parte e questo mi frenava.
Ora devo decidere che farne: 1) bruciarlo; 2) lasciarlo lì; 3) mandarlo a delle case editrici; 4) candidarlo a concorsi letterari; 5) stamparlo con “Il mio libro”; 6) pubblicarlo a puntate come romanzo d’appendice di questo blog.
Mi aspetto dei suggerimenti: lo so che c’è qualcuno che mi legge, quattro gatti, ok!, ma almeno da quelli esigo, pretendo, mi aspetto, vi supplico: postate dei commenti coi vostri suggerimenti… voglio vedere un sacco di messaggini qui sotto, vi prego!

lunedì 19 settembre 2011

Il mio amico Yakou

Yakou potrebbe essere il prototipo del giovane ivoriano.
Innanzitutto perché, come un terzo dei suoi connazionali, viene in realtà da un altro Paese (roba che a Bossi gli farebbe partire un altro embolo). Lui viene dal Gambia, altri vengono dal Burkina, dal Mali, dal Senegal, dal Benin.
Ora tutti hanno i documenti, grazie alla campagna di identificazione che era stata fatta in vista delle ultime elezioni. Già, perché l’anagrafe non è roba semplice da queste parti: si nasce per lo più in casa (perché l’ospedale costa), e in comune ci vai se c’è, se hai voglia, se l’impiegato non ti chiede soldi… è raro che uno risponda prontamente a domande tipo: “Quanti anni hai?” o “Quando è il tuo compleanno?”. Non lo sanno, l’hanno dimenticato, non gli interessa. Mi ricordo che pochi giorni dopo che ero arrivata qui la prima volta, avevo partecipato a una manifestazione sui diritti dei bambini e mi ero stupita che uno dei più “sbandierati” fosse: “Ho diritto a essere denunciato alla nascita”. Eppure è vero: senza, non sei nessuno, non puoi votare, non puoi andare a scuola (e fare i documenti dopo un certo periodo di tempo dalla nascita, qui non è più possibile).

Ora, finalmente i vari Yakou sono stati riconosciuti cittadini della Costa d’Avorio, dopo una vita che ci vivono. Appena hanno l’occasione, ti mostrano orgogliosi la loro piéce d’identité, anche quelli che non sanno leggerla. Anche quelli che, come il mio amico, hanno mentito sulla data di nascita (per esempio per fare la patente prima dei 18 anni… lui sulla carta è nato nel ’77, ma dice di avere 26 anni… ma lo dice da tre anni… insomma: non so la sua età).
Anche avere i documenti non è cosa così scontata, da quando qualcuno si è inventato l’idea di ivoirité (una roba che non esiste se si considera che anche i confini di questa nazione, tracciati dai colonialisti, non hanno niente a che vedere con l’identità culturale delle popolazioni che ci sono cascate dentro o ne sono state tagliate fuori).
I vari Yakou ora sono ivoriani a tutti gli effetti, hanno potuto votare. E Yakou, come molti altri giovani ivoriani di origine straniera, ha fatto campagna proprio per l’uomo a cui 10 anni fa era stato impedito di candidarsi perché di madre burkinabè (ecco cos’è l’ivoirité!). Lo hanno fatto anche quelli che 10 anni prima avevano sostenuto il rivale Gbagbo. Perché all’epoca Gbagbo comunque rappresentava l’alternativa al regime militare (poi ha confiscato il potere per un decennio).
Devo dire che gli ivoriani hanno dimostrato una certa maturità politica (per essere solo la quarta volta che gli capitava di votare): nessuno si aspettava che vincesse Ado, ma se la scelta era tra chi detiene il potere da dieci anni "sans rien faire" e un vecchio capo di stato troppo anziano anche solo per farsi campagna elettorale, rimaneva solo lui, il terzo. E anche quando al secondo turno Ado aveva bisogno dei voti di Bedié, nessuno pensava che i sostenitori di quest’ultimo sarebbero davvero andati alle urne per puntare su un campione diverso.

Poi, sì, ok: c’è stata una guerra civile, ma da queste parti è fisiologica; gli ivoriani l’hanno subita (come molti altri eventi, naturali e non, per loro inscritti nell’ordine delle cose). Magari qualcuno vi ha anche preso parte, ma nessuno l’ha scelta.

Come tanti altri giovani ivoriani, anche Yakou fa molti lavori e nessuno.
Ha una bancarella di artigianato, giù al Quartier France. Ma ha anche la patente (un raro patrimonio da queste parti) e ogni tanto fa lo chauffeur: privato, di taxi, di cinq-cent-quattre (le Peugeot 504 utilizzate per il trasporto interurbano, dei forni sgangherati in cui si sta pigiati con persone e animali).
Ogni tanto lavora per una francese. Questi ha una muta di cani giganteschi che Yakou odia. Per due motivi fondamentali: 1) la spesa per il loro mantenimento è superiore alla sua paga (credo che noi europei ai loro occhi appariamo come pazzi maniaci). 2) quando lui passa davanti alla loro villa nei periodi in cui il francese non c’è, questi gli corrono incontro per giocare con lui; ma quando il padrone torna, gli ringhiano appena varca il cancello: “Mi fanno fare brutta figura col patron!”.
Poi il francese sparisce per lunghi periodi e Yakou resta senza lavoro. Allora si occupa un po’ del suo "magasin"; o può capitare che lo chiamino per guidare un taxi ogni tanto. O un 504. Ne parla con entusiasmo, anche se dice di preferire il lavoro in bottega.
Finalmente, ascoltandolo, ho capito che cosa significhino i gesti che gli autisti fanno, il braccio perennemente fuori dal finestrino: se sembra che ti stiano mandando a quel paese, in realtà stanno segnalando che vanno verso Bonouà; quando credi che ti stiano salutando è perché stanno andando a Bassam; se il gesto voi lo tradurreste con “Vieni qui!”, vuol dire che stanno andando ad Abidjan (potete immaginare le figuracce che mi sono fatta prima di scoprirlo).
Dal momento che Caio vorrebbe anche lui fare l’autista di 504 (se si stufasse di fare il direttore educativo della Communauté), Yakou ci ha spiegato anche tutti i trucchi per cercare di portare a casa la giornata. Già: perché non è che se ti affidano quel lavoro poi ti pagano. Anzi, sei tu che devi pagare l’affitto del mezzo, la benzina e ovviamente il pizzo ai poliziotti; quindi, perché ti rimanga qualcosa a fine giornata, ti devi fare un mazzo tanto.
Innanzitutto, se parti dalle stazioni, c’è tutta una mafia che stabilisce quale macchina può caricare per prima i passeggeri. Così, Yakou preferisce caricare le persone sulla Route Internationale. Ora, sulla strada c’è sempre una lunga fila di 504 e quelli davanti non si lasciano superare a meno che tu non sia diretto da un’altra parte (per essere sicuri che non gli freghi i clienti). Allora Yakou mente, agitando a caso la sua manona fuori dal finestrino e quando incontra dei potenziali clienti non gli rimane che fare il gesto del “Tu Vas Où?” (in italiano sarebbe: “Ti svito le lampadine” -?!-).
Poi si deve partire prestissimo, andare il più veloce possibile per cercare di fare più volte il viaggio avanti e indietro, e non fermarsi mai (in effetti gli incidenti sono all’ordine del giorno). Dopo di che, ti va bene se arrivi a sera con 2.000 franchi in tasca (circa 3 euro).
Ma 2.000 franchi sono buoni per mangiarci qualche giorno.
Non c’è l’ansia qui di trovare un posto fisso, una paga che permetta di mettere da parte qualcosa per i momenti meno "fortunati". Sarà che comunque lavoro non ce n’è e quindi ci si accontenta di ciò che si trova.
Ma è anche che non c’è tanto l’abitudine a guardare nel futuro: oggi mangio, domani anche, dopodomani ci penserò.

È così che Yakou, durante la crisi, si è ritrovato senza più la sua stanzetta (che non poteva più pagare), a dormire nella corte con una ferita infetta e senza mangiare. Ma “on est une grande famille” e allora è stato ospite da noi per un po’, finché non si è rimesso.
A differenza di tanti giovani ivoriani, però, Yakou non chiede quasi mai. Au contraire cerca sempre di ricambiare i nostri inviti come può: lava i piatti, porta una birra o un regalino dalla sua bottega. E tutta la sua gentilezza. È veramente la persona più premurosa che abbia mai incontrato, ti sa circondare di attenzioni, senza mai farti sentire in imbarazzo o a disagio o “soffocata”. Gli viene proprio spontaneo, come la dolcezza che riversa su Marysol… “Ma princesse adorée” la chiama (lei ovviamente è innamorata cotta).
In più mi affascina il suo modo di guardare al mondo: lui, come Marysol, crede nella magia. E così tutto ciò che appare, appartiene a due piani di realtà: il famoso “commando invisibile” di Abobo (vd. Post “Nostoi”) per esempio, era costituito da uomini che avevano il potere di rendersi veramente invisibili, oltre che di schivare i proiettili. Quando ascoltano queste teorie, Caio e Lina reagiscono da europei, si irrigidiscono, sorridono e cercano di convincerlo che non è possibile.
A me invece vengono in mente certi romanzi della letteratura latinoamericana, così profondamente pervasi di magia, come se fosse la cosa più naturale del mondo. È semplicemente un modo diverso di guardare alle cose, come passare una serata a guardare le forme delle nuvole e ognuno ci vede quello che vuole.

Ma la cosa che apprezzo di più in Yakou è la sua capacità di tradurmi il suo mondo, non solo nel senso che mi traduce le canzoni di Tiken Jah dal Dioulà. Nel mio “viaggio antropologico”, sto toccando con mano quello che ho studiato sui libri circa l’etnocentrismo e la difficoltà di guardare alla realtà umana con occhio scevro da condizionamenti culturali, con l’obiettività e la neutralità della scienza.
Un esempio: se un uomo picchia la sua donna per strada mentre i passanti si fermano a guardare, a ridere, ma non intervengono (scena a cui ci è effettivamente capitato di assistere, prima che Caio –sempre nei panni mai abbastanza apprezzati del paladino della giustizia- si intromettesse), non è semplicemente che quello è uno stronzo ubriaco e quegli altri, altrettanti stronzi pure un po’ cacasotto. Dietro questa scena c’è: 1) tutta la questione di genere (vecchia storia del maschio che porta a casa i soldi e della femmina che ricambia facendogli da elettrodomestico anche ad uso sessuale e riproduttivo); 2) il ruolo della donna (qui non c’è stato un movimento femminista; per quanto possano essere toste le donne africane –e ce ne sono alcune veramente toste- non c’è una coscienza di sé tale da far dire: “No, lui non ha il diritto di farlo e io non ho il dovere di subire”; pare anzi che l’idea sia –talora- che se non ti pesta, se non è geloso, è perché non gliene frega niente di te); 3) i rapporti familiari (“Qui gli uomini, in casa non parlano –spiega Yakou- il padre per esempio l’unico rapporto che ha con i figli è quello di forza, non gioca con loro, perché gli deve insegnare ad essere forti”); 4) talvolta, i matrimoni combinati .

Alla fine il risultato non cambia: l’uomo che picchia una donna rimane uno stronzo; ma vedrei solo quello e non tutto il resto, senza la “traduzione” di Yakou.
Spesso, la sera, quando si ferma da noi, racconta questo suo mondo. In cui i ragazzi hanno come massima aspirazione di lavorare dal lunedì al venerdì, per sperperare tutto il denaro nel bere, sabato e domenica (e la sfida qui è riuscire a non diventare alcolizzato, quando sei così fortunato da avere un lavoro). In cui le ragazze per scegliere un fidanzato guardano quante bottiglie vuote ci sono sul tavolo del bar, perché se sono tante vuol dire che è “ricco”. In cui i giovani “nouci” (scugnizzi) crescono sulla strada, a branchi, senza un adulto che li segua, dovendo sempre cercare di dimostrare di essere più forti degli altri per sopravvivere; fino al giorno in cui qualcuno di loro non si dice: “Voler à quelqu’un c’est pas un petit travaille”, e cerca un’occupazione più o meno onesta (come è capitato a lui).
È per tutte queste ragioni che non mi chiedo più che fine abbia fatto il nostro motorino, che lui avrebbe dovuto vendere per noi (questo prima dello scoppio della crisi; dopo di che non abbiamo più visto né motorino, né soldi): intanto perché ormai so che qui è così, la gente si arrangia “come può” (è così e basta: inutile disquisire se sia comunque ingiustificabile o un’inevitabile conseguenza del contesto... Yakou, in fondo, in questo video-gioco che è la sua vita, è già arrivato al terzo livello: ha evitato la banda armata e l'alcolismo); ma soprattutto perché trovo che la sua amicizia valga più di due ruote.

Riassunto delle puntate precedenti

Ok, sì: ho di nuovo trascurato questo blog per troppo tempo. Ma (facendo un riassunto degli ultimi tre mesi e accampando le classiche scuse con cui rispondi in ritardo ad un amico): nelle ultime settimane di permanenza qui prima della pausa estiva ho dovuto montare 18 (diciotto!) video per la Communauté e (notiziona!) ho cominciato a scrivere un romanzo (non so ancora bene cosa ne farò: se lo terrò in un cassetto ad ammuffire, se lo manderò a Case Editrici e concorsi letterari o se lo pubblicherò a puntate come romanzo d’appendice di questo blog: per ora lo scrivo -è già un obiettivo ambizioso- e mi sta riuscendo e mi prende molto tempo e sono contenta).
Poi siamo rientrate in Italia per un mese e mezzo. E dall’Italia non ha senso scrivervi: vi vedo! Funziona sempre che, quando si arriva, si inizia il tour di parenti e amici e quando hai finito, devi ricominciare perché stai per ripartire. In mezzo, a questo giro, c’è stato anche: 1) un mezzo trasloco; 2) varie ed eventuali. Tra cui: a) ho aperto un canale Youtube (altra notiziona, eh!):

http://www.youtube.com/user/franypicci

Qui potete trovare (per ora e credo fino al prossimo rientro per Natale – perché se lì non ha senso scrivere, qui caricare video è praticamente impossibile, date le connessioni): il video del concerto di Tiken Jah e del giro in piroga sulla laguna.
Quest’ultimo è stato uno degli eventi più rimarchevoli del mese di luglio. Gli altri cercherò di farmeli venire in mente e poco a poco raccontarveli prossimamente. Per ora vi lascio solo uno dei “ritratti” (vedi post: “Storia di Abou”), che avevo in bozza da un po’.

P.S.: se qualcuno se lo chiedesse: la sfida a scopa tra Caio e Marysol è ferma sul 19 a ? (nel frattempo ce lo siamo dimenticati) per Caio; dall’ultimo nostro giorno di permanenza qui, prima delle “vacanze”. Ma si esita a riprenderla perché la piccola ha ripensamenti sulla posta in gioco (Dado).

lunedì 27 giugno 2011

La Grande Sfida

Caio e Marysol sono uno di fronte all’altro e si fissano negli occhi puntandosi l’indice a vicenda:
“E se vinco?”
“E se invece vinco io?”
Segue silenzio carico di tensione e sguardi di sfida. Finché Caio propone:
“Mettiamo delle penitenze”
“Ok, chi perde viene riempito di botte!” ribatte Mary, che ormai è entrata nel mood dei bambini di strada ivoriani.
“Mh, - abbozza Caio – ma il premio qual è?”
A quel punto inizia una lunga dissertazione sulle regole da seguire e reciproche garanzie di “giocare pulito”. Ma ancora non si arriva a stabilire il premio. Dopo lunga riflessione, Marysol conclude:
“Ok, ho cambiato idea: la punizione per chi perde è semplicemente che non riceve alcun premio”
“Mi sta bene… ma allora il premio qual èèèèèèèèh?” insiste Caio impaziente.
“E’ non essere riempito di botte!” si intromette Leo.
Ma l’idea non soddisfa i contendenti; che ora, mani sui fianchi, girano uno intorno all’altro, senza mai abbassare lo sguardo. Quando la voce di Caio irrompe come un sibilo che spezza la suspence:
“Scommetto il mio computer contro Dado!” e si blocca davanti alla piccola, piedi piantati a terra, gambe larghe, braccia conserte.
A quelle parole, chiare, limpide e minacciose, mia figlia sgrana gli occhi e la bocca prende la forma di una enorme “o” tonda: “Noooooooooooo. Dado piangerà per un anno!!!!!!!!!” la voce rotta dall’emozione.
Il momento è grave: Dado è il bambolotto preferito di Marysol, ce l’ha da quando è nata e l’ha accompagnata in mille avventure. Ora rischia di perderlo. Ma la bimba sa che in questo ambiente se ti tiri indietro sei fatta!
Ora si tratterà di stabilire dove e quando (Marysol ha un’agenda fittissima), ma ormai è deciso: Caio e Mary si sfideranno a scopa… sul piatto: Dado il prediletto e, dall’altra parte, un computer carico di giochi e soprattutto…DI ROCK!!!!!!!!!!! (la nuova passione di mia figlia, che quando Caio le mette su i NoFX, lei scrolla la testa e agita il pugnetto come una vera invasata).
Prossimamente su questo blog. Non perdetevelo!

martedì 21 giugno 2011

Tiken Jah, il concerto della vita

Tan tan tantatan ta ta taaaaaaaaa
E poi le trombe
E poi la voce, calda e profonda: “Non non non non n’né tena son oma/ Non ne tésson oma ayebada/ N’tésson oma/ Ne tésson oma ayebada/ N’tésson oma…”
E la musica mi entra dentro la pancia dall’ombelico e mi scalda e le gambe si flettono e fanno male ma non riesco a smettere di ballare.

Lui è là, bellissimo: un omone gigantesco con una gran massa di dred che salta e balla, svolazzante nel suo boubou di iuta, e la sua voce gratta l’aria di questa splendida serata, non piove, non fa caldo, non ci sono zanzare. Il concerto è per la riconciliazione (per beneficenza -costruisce una scuola ad ogni concerto- e solo a 3 euro) ed è ad Abobo, il quartiere che più ha sofferto per la guerra, quello in cui hanno sparato sulle donne al mercato, quello del "commando invisibile". Lui ad ogni canzone ne spiega il significato e tutte parlano di pace, del bisogno di un'Africa unita, di "rivoluzione" intelligente, dell'importanza dello studiare, di come la cattiva politica ha ridotto il suo paese, lui che è dovuto andare in esilio 5 anni solo perché ha cantato "quitte le pouvoire" (molla il potere) a Gbagbo; parla dello sfruttamento che i bianchi "ci" fanno e poi "ci" chiudono le frontiere. Ogni canzone un pezzo di storia di questo Paese, un saggio antropologico.

Ancora trombe, malinconiche. Poi partono basso, chitarra, maracas, forse c’è anche un balafon. Classico ritmo reggae: “We wont a revolution/ young people’s revolution/ Intelligent revolution/ Must be african’s education”.
E Caio balla a piedi nudi nel fango.
E Taibou è l’unico africano che non sa ballare.
E Lina ha trovato un cappellino rasta bellissimo.
E Yakou sembra un bambino impazzito di gioia e canta tutte le canzoni in Dioulà (il dialetto "dei poveri" di tutta l'Africa occidentale).
E se ci fosse Marysol si divertirebbe un casino e farebbe stage-diving fino a Tiken Jah!

“Sors de ma télé, yehhhhhhh” e le braccia si lanciano in aria e sono diecimila con le altre e io non riesco a smettere, ora su una gamba ora sull’altra, e via: il sedere ondeggia da solo e i capelli mi vanno negli occhi.
E io e Caio siamo gli unici bianchi e tutti si fermano per conoscerci, per spiegarci cosa significhi per loro quella festa e che cosa significhi per loro che anche noi siamo lì.

Tam tam, poi sassofoni: “Viens voir, viens voir/Viens voir, viens voir /Toi qui parles sans savoir /Mon Afrique n'est pas ce qu'on te fait croire/Pas un mot sur l'Histoire de ce continent/Sur les civilizations et les richesses d'antan /Aucun mot sur le sens des valeurs/Des gens qui t'accueillent la main sur le coeur …”.
E siamo circondati dalle FRCI (l'armata nata dal connubio degli ex ribelli e disertori dell'esercito lealista che ha liberato il Paese e rappresenta l'unica forza dell'ordine al momento perché poliziotti e gendarmi sono scappati), tutti ragazzi, alcuni giovanissimi, tutti con maglietta "peace and love" e kalashnikov. Sì, lo so è una contraddizione e la presenza di tanti giovani armati è uno dei problemi di oggi. E forse ballare e farsi le canne con quelli che a loro volta ballano, fumano e sono ubriachi persi con un fucile in mano non è il massimo. Ma in questo momento mi sembrano bellissimi anche loro, mi sembrano ragazzi che hanno combattuto per il loro paese, che ora festeggiano la vittoria. Sono l'immagine di questo posto assurdo, di questo continente folle di cui mi sto innamorando. « …Viens voir /Viens voir, viens voir/Viens voir, viens voir/Toi qui parles sans savoir /Mon Afrique n'est pas ce qu'on te fait croire/Africa n'est pas ce qu'on te fait croire/Viens dans nos familles/Viens dans nos villages/Tu sauras ce qu'est l'hospitalité /La chaleur, le sourire, la générosité/Viens voir ceux qui n'ont rien /Regarde comme ils savent donner/Tu repartiras riche/Et tu ne pourras pas oublier… ».

domenica 12 giugno 2011

La vita che ho scelto

La vita che ho scelto è correre in riva al mare di Assouendé sotto la pioggia. Fermarsi, insegnare a Mary la respirazione “dei grandi atleti” e ripararsi sotto la tettoia del ClubMed abbandonato. Costruire nella sabbia una pista per le biglie e giocare.
La vita che ho scelto è passare una serata sulla spiaggia con Caio e Lina a indovinare le forme delle nuvole.
La vita che ho scelto è osservare il tramonto sulla laguna, quando l’acqua e il cielo si tingono di rosa e giallo.
La vita che ho scelto è incontrare persone strane e diverse. Alcune simpatiche e interessanti, altre che mi disturbano; ma tutte che mi danno qualcosa.
La vita che ho scelto è cercare di dare il mio contributo a tutto ciò che fa la CommAbel (giusto per dare un’idea di quello che si fa: formazione professionale a un centinaio di ragazzi in agricoltura, elevage, sartoria, falegnameria, meccanica, ecc.; corsi di alfabetizzazione a 500 persone -uomini, donne, bambini, cani e gatti-; scuola materna a 20 bimbi; diamo un pasto al giorno a 100 ragazzi; garantiamo libero accesso a biblioteca, sala giochi, atelier di musica; ospitiamo 200 rifugiati di guerra e attraverso Save the Children abbiamo distribuito kit alimentari e igienico-sanitari per i rifugiati della città; stiamo portando acqua potabile in 5 quartieri e villaggi; stiamo iniziando un progetto finanziato dall'Onu sulla coesione sociale post-guerra; organizziamo dibattiti nelle scuole sul tema delle gravidanze precoci; festeggiamo con musica canti e balli ogni tipo di ricorrenza -cristiana, musulmana, civile, ecc.-; portiamo in giro una carovana di film).
La vita che ho scelto è un viaggio: stando ferma, “giro, vedo gente, faccio cose”. Banale? Troppo facile? Demodé? Da freakettoni irresponsabili? Forse. Ma è la vita che ho scelto… e pochi lo fanno. Certo: io ho potuto. Ma ho potuto perché l’ho voluto. E l’ho voluto perché mi sembra che sia l’unico modo per poter dire di aver vissuto veramente. Perché esploro, scopro, perché sono bombardata quotidianamente da emozioni fortissime.
La vita che ho scelto è l’unico lusso che mi interessa.
La vita che ho scelto ve la voglio raccontare perché ho sempre sognato di diventare una “Piero Angela” e questo è un po’ un modo per fare un “documentario dal basso” (anche se forse assomiglia di più alla parodia che Neri Marcoré faceva di Alberto Angela nell’Ottavo Nano).
La vita che ho scelto ho cercato di spiegarla a mia figlia. Le abbiamo detto finalmente che rimarremo qui ancora per un po’ di anni. Lei ha chinato il capo in avanti per qualche secondo e non ha detto niente. Poi ha iniziato a correre e giocare sul bagnasciuga con Leo.
Non ne abbiamo più riparlato, ma sembra più serena, anche solo per il fatto di sapere finalmente con certezza dove trascorrerà il suo futuro.
E comunque, da quando gliel’abbiamo detto il suo atteggiamento verso il mondo che la circonda è più intraprendente.
Ora ha finito la scuola, ma continuiamo a mandarla alla Petite Enfance del Carrefour Jeunesse dove si scatena coi bimbi di strada. Il pomeriggio invece lo passa coi bimbi deplacés o con gli apprendisti del Centre. Si diverte, fa molte esperienze di interazione con soggetti diversi. E con tutti si trova perfettamente a suo agio. È felice. E questo basta.
La vita che ho scelto è vederla intrufolarsi in un corteo per i diritti dei bambini africani, unica piccola africana bianca.

lunedì 6 giugno 2011

Se 6 anni sembran pochi

Oggi la mia bimba compie 6 anni.

SEI ANNI!!!!!!!!! MA VI RENDETE CONTO???????

Sei anni sono un passaggio importante: come dice Caio, tanto per cominciare, d’ora in avanti ci vorranno due mani per mostrare l’età sulla punta delle dita.
E poi sei anni è l’età in cui si cominciano le elementari… e qui si presentano i primi problemi: lei è convinta di farle in Italia, ora le dovremmo dire che abbiamo deciso di restare in Africa.
Questa storica decisione l’ho finora appena accennata, ma non spiegata. E non ne ho voglia neanche adesso. Non c’è niente da spiegare… sì, ok, io poi mi posso mettere a fare il discorso che mi sono ripetuta più volte per i parenti. Ma sono solo razionalizzazioni a posteriori: sì, è vero, avevo una paura fottuta di tornare a vivere in Italia, paura di non trovare lavoro o di essere costretta ad accettarne uno qualunque, di costringere Leo a fare altrettanto, di incattivirmi. Ma soprattutto non capivo perché sarei dovuta tornare: a Leo il contratto scadrebbe ad ottobre prossimo venturo, ma a Torino sarebbero ben contenti di rinnovarglielo, e lui sente di non aver ancora terminato il suo percorso qui. Anche io avevo ancora cose di cui raccontare su questo blog (a molti non sembrerà un granché, come lavoro non è nemmeno retribuito, ma è pur sempre meglio che regalare la tua luce del giorno ad un padrone).
Poi sì, è vero, qui c’è la guerra (o meglio: c’è stata), c’è la malaria, ci sono un sacco di brutte cose. Ma mi sembra una vita più vera di quella passata a farsi inghiottire dalla metropolitana tutte le mattine per poi esserne risputata fuori quando ormai è già buio. Una vita vissuta alla luce del neon e dello schermo del computer (tutto è artificiale), in cui si diventa matti per far quadrare i conti, per star dietro a tutto, in cui il rubinetto che perde diventa una catastrofe (qui quando gocciola, almeno vuol dire che l’acqua c’è!).
Avrei deciso di tornare solo per gli altri. Per la suocera, per la figlia, per la sorella. Ho scelto di essere egoista.

Sei anni è sicuramente anche un momento molto delicato: io mi ricordo per esempio che per me fu un po’ un trauma passare dalla casa di mia nonna dove vivevo con 5 cani e 7 gatti, dalla materna, frequentata a Viguzzolo, alle elementari di Tortona, nella casa coi miei e mia sorella.
A Marysol sto chiedendo di fare molto di più, di passare da Milano a Bassam! Ma la mia bimba è in gamba, assai (bisogna solo farle capire che non è così terribile come pensa –visto che qualcuno le ha messo in testa che qui alle elementari picchiano… e non indago su chi possa essere stato perché se lo scopro sarei io ad alzare le mani!).
E io la proteggerò da tutte le cose brutte e farò di tutto perché ciò che la circonda assomigli sempre di più (già molto gli somiglia) al suo Paese delle Meraviglie; e lei crescerà felice in un mondo che altrimenti non avrebbe mai potuto neanche immaginare (nel bene e nel male) e questo farà di lei un’adulta migliore di altri (come madre non posso sperare di meglio). In fondo anche io, superate le difficoltà iniziali, ero felice a Tortona. Basta essere insieme noi tre. Ovunque.
E pazienza se questo le insegnerà ad ubbidire alla voce del cuore, se questo un giorno farà partire anche lei per esplorare nuovi mondi, lontano da noi. Sarà donna.
Per ora mi godo la bimba, la sua allegria, la sua dolcezza, le lenti attraverso cui guarda al mondo, l’orgoglio che provo quando camminiamo mano nella mano e io penso: questa l’ho fatta io, ma non è merito mio, guardate tutti che incanto, come cresce! Adesso è una bimba grande, adesso ha sei anni (e io al suo fianco un po’ invecchio ma soddisfatta, invecchio bene).
Per ora le regalo la bici per iniziare a pedalare un po’ in questa vita.

Tanti auguri Marysol, con dei genitori come noi ne hai bisogno!

giovedì 2 giugno 2011

Storia di Abou

Abou è uno dei nostri guardiani. Un signore/ragazzo dall’età indefinibile, magro, alto, pelato con grandi occhi tondi e miti.
Arriva sulla sua bici tutte le sere, pantaloni di tela blu arrotolati al ginocchio, camicia come usano qui (sembra un po’ una giacca, un grembiule da commesso), verde scuro. Saluta e ringrazia perché anche noi lo salutiamo. Si carica il gatto sulla spalla e se lo porta a fare una passeggiata, coccolandoselo mentre controlla quanti conigli ci hanno rubato oggi o se ci sono magnà (formiche carnivore) pronte all’attacco. Poi torna per riportare il gatto e ringrazia ancora (non so per che cosa… forse pensa di dover ringraziare tutte le volte che qualcuno non lo prende a calci!). Quindi si mette sotto l’apatame, che è quasi come una casa per lui: si arrangia le sue cose, ogni tanto si fa il bucato, spesso lo si vede accucciato su un fornelletto a carbone che si scalda il tè, tra una ronda e l’altra. Anche in notti come questa, in cui infuria la tempesta e non c’è corrente, vedi la sagoma della sua cerata gialla da guardiano del faro, aggirarsi illuminandosi il sentiero alla flebile luce di una torcia.

Abou viene dal Burkina. Là faceva il pastore e un giorno si è avventurato in un viaggio biblico per venire a vendere del bestiame qui a Grand Bassam. Non ho idea di quanti chilometri siano, ma non è tanto la distanza fisica che può darne l’idea: cerco di immaginarmelo, lui, analfabeta, che non parla quasi francese, che ha sempre vissuto nel suo villaggio, che con quella sua aria vulnerabile si accinge ad attraversare confini, quello delle cose conosciute, quello di un altro Paese, le sue personali Colonne d’Ercole, e poi ancora tutta la Costa d’Avorio da Nord a Sud. Mosso dal miraggio dell’affare della vita.
Non so nemmeno COME sia arrivato qui, presumibilmente in treno, ma non mi stupirebbe se lo avesse fatto a piedi.
Quello che so, invece, è che arrivato qui non ha trovato il tizio a cui doveva vendere le sue vacche. E quindi non ha più avuto i soldi per tornare.
Poi ha trovato lavoro alla Communauté Abel. Ma i soldi non bastano mai per tornare. Così sono passati cinque anni. Cinque anni senza dare notizie alla famiglia, e naturalmente senza riceverne. Cinque anni, prima che i nostri predecessori del progetto scoprissero la sua storia e gli donassero i soldi per andare a trovare la famiglia.
Là, ha trovato che la moglie era stata data al fratello: tutti infatti si erano rassegnati all’idea che fosse morto. Così ha lasciato ciò che non aveva più (figli compresi) e se ne è tornato.

Al venerdì lo vedi partire agghindato di tutto punto col boubou per andare in moschea. È elegantissimo con la sua figura snella avvolta in uno splendente basin di un bianco abbacinante.
È un tipo taciturno, dall’aria triste e sola. Tranne quando può parlare il suo dialetto con qualcuno. Spesso lo viene a trovare Koné, uno degli educatori che dorme al dortoire, uno del Nord anche lui (qui ci sono tante etnie, tante tribù, ma la distinzione che sento più spesso è data dall’appartenenza ai punti cardinali). Allora si sentono le loro risate nella notte. Mettono di buon umore quando le senti prima di addormentarti, sono i miei folletti.
Abou è nel lungo elenco di quelli per cui vorrei una vita diversa, tra quelli che conosco qua.
Non so esattamente che cosa posso fare io per aiutarli. Per ora racconto le loro storie. È un modo per tirare fuori la dignità (enorme) nascosta (molto) in quelle esistenze.
E aspetto l’occasione un giorno anche solo per un piccolo gesto che possa fargli sentire la mia vicinanza a loro.

martedì 31 maggio 2011

Fischia il vento

Sembra che il vento del cambiamento fischi davvero! Non potevo non dedicare un post a questa bella Italia, anche se l'ho abbandonata, ci tengo ancora, soprattutto in questi momenti. Peccato non esserci.

Ma sono contenta, anche se lontana. Contenta perché anche senza il mio voto Pisapia ce l'ha fatta (forse anzi ero io che portavo sfiga...). Contenta perché i candidati che vincono NON sono scelti dal Pd (si facciano due conti). E speriamo che lavorino bene!