sabato 8 gennaio 2011

Mal d'Africa

Dopo un mese di silenzio, questo è il secondo post in pochi giorni. La verità è che la Costa d’Avorio mi manca da morire. Così mi capita di fare errori madornali come passare il pomeriggio leggendo le notizie su Abidjan.net e ascoltando Tiken Jah.
Nella sua musica c’è tutta la luce di quel cielo così basso che splende anche quando è tumefatto di nuvoloni; c’è tutta la vitalità di quelle strade brulicanti di persone, colori e animali. Ascoltandola non posso fare a meno di vedere le piste di terra rossa divorate da campi, acquitrini, foresta e rifiuti; i sorrisi dei nostri amici; le domeniche a Mondoukou; tutti quei discorsi sul futuro del Paese, le loro speranze.
E i suoi testi mi fanno sognare un’Africa diversa, quella dove i miei amici possano lavorare in pace e continuare a parlare del loro futuro e sperare… e non perdere l’amore per queste cose come è invece capitato a me con l’Italia.
Cosa non darei per essere là adesso e partecipare alle iniziative che il Centro sta facendo tra le comunità più divise dalla crisi politica per rinsaldarle facendole giocare a calcio. Sono queste cose poi che alla fin fine possono rendere più difficile agli uni di sparare contro gli altri, mentre Gbagbo organizza le sue milizie e Ouattara cerca il modo di asfissiarlo economicamente. O forse no: magari non serve a niente, ma è sempre meglio che stare qui ad ascoltare Tiken Jah che parla di “African Revolution” (We want revolution/Young people revolution/Intelligent revolution/Must be African education/ Go to school brother/And learn what they are doing/It will open up your eyes/to the people's situation/Go to school my brother/I said go to school/You will understand very soon/All problems of your nation…), e dice che « Il faut se lever » (Personne ne viendra/changer l'Afrique à notre place/Je dis personne ne viendra/changer l'Afrique à notre place/Il faut se lever, lever, lever pour changer tout ça On doit se lever, lever, lever pour changer tout ça/Il était une fois/un continent pris en otage/Qui se demande pourquoi/il ne peut sortir de sa cage/Il faut se lever, lever, lever pour changer tout ça On doit se lever, lever, lever pour changer tout ça/On cherche le bonheur dans les cartes/On cherche mais on le trouve pas/Pourquoi faut il toujours qu'on parte/Alors que l'Eldorado est là/On veut voler de notre propres ailes/C'était le rêve de nos aïeux/Elle est pas si loin l'étincelle/Il suffit qu'on ouvre les yeux/Il faut se lever, lever, lever pour changer tout ça On doit se lever, lever, lever pour changer tout ça/Personne ne viendra/changer l'Afrique à notre place/Je dis personne ne viendra/changer l'Afrique à notre place/Il faut se lever, lever, lever pour changer tout ça On doit se lever, lever, lever pour changer tout ça/N'ayons pas peur de l'ouvrage/De tout reprendre à zéro/N'ayons pas peur tournons la page/Pour construire un monde nouveau/Il faut se lever, lever, lever pour changer tout ça On doit se lever, lever, lever pour changer tout ça/Personne ne viendra/changer l'Afrique à notre place/Je dis personne ne viendra/changer l'Afrique à notre place).
La prossima settimana Leo deciderà se ripartire o no. Io continuo ad essere contraria perché non mi sembra che in questo momento il gioco valga la candela. Ma capisco benissimo la sua voglia di andare.
Vi lascio qualche link per scoprire di che parlo quando cito Tiken Jah Fakoly.

http://www.youtube.com/watch?v=iowzq1QtE_I
http://www.youtube.com/watch?v=iEC-8005oXM&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=ThmhpX2srzo&feature=relatedhttp://www.youtube.com/results?search_query=tiken+jah+fakoly+il+faut+se+lever&aq=f

martedì 4 gennaio 2011

Anno nuovo… e la vita?

È passato un mese dall’ultimo post. Troppo tempo. Ma certe emozioni hanno bisogno di sedimentare.
E questa veranda a picco sul lago Maggiore, invasa da un sole invernale, è il posto ideale in cui provarci. Già: sono in Italia…è la prima volta che scrivo fuori dalla Costa d’Avorio.
E questo mi costringe a fare un salto indietro di qualche settimana. Questo blog sembra sempre di più Lost, con flash farward (dall’inizio della mia esperienza africana – peraltro con cose scritte mesi prima - a quello che potrebbe rivelarsi come l’epilogo) e flash back (da questa veranda ai primi giorni della crisi politica ivoriana).
Il 13 dicembre io e Marysol siamo partite. Negli ultimi giorni la tensione era salita anche a Bassam: si iniziava a parlare di milizie mercenarie gbagboiste nascoste da qualche parte in città; i miei amici mi raccontavano di dormire col machete sotto il cuscino; Paul il sarto cercava i mezzi per far rifugiare la moglie incinta e la madre anziana in Ghana (poi Lina gli ha pagato il biglietto dell’autobus); e anche l’amichetta di Marysol mi chiedeva di poter venire a stare a casa nostra perché aveva paura che le dessero fuoco alla casa (un timore rivelatosi poi infondato, parlandone con la mamma, ma che la dice lunga sull’umore della gente).
Quel mattino siamo partiti presto, io, la bimba e Caio (che ha deciso anche lui di rientrare, mentre Lina era partita il giorno prima, Tizio due giorni prima, Lella tre giorni prima… solo Leo ha deciso di restare). Lungo il tragitto non riuscivo a scollare gli occhi dal finestrino, non perché m’aspettassi di veder saltar fuori uomini armati da una delle tante buche sulla strada (preoccupazione peraltro legittima), ma perché cercavo di fissare quelle immagini nella mente per poterle sfogliare come foto ricordo il più a lungo possibile: non sapevo se e quando avrei rivisto le file sterminate e ordinate delle palme, i chioschetti di paglia che corrono ai lati delle macchine, le donne slanciate e vestite di colori sgargianti che sfilano coi loro cesti in testa, le pecore che brucano ciò che trovano tra asfalto e sabbia, l’oceano spumeggiante che fa capolino al di là della vegetazione, la laguna scintillante al primo sole del mattino, quel cielo basso e azzurro che diffonde ovunque una luce accecante.
Pensavo alla prima volta che avevo fatto quel tragitto, al contrario, di notte, alle mie paure e alla mia curiosità di allora; alla serenità che avevo trovato nella mia casetta in mezzo agli aironi; agli amici che lasciavo. Io, la bianca, appena le cose si mettevano male, partivo, perché potevo, avevo i soldi per farlo e un altro posto dove andare. Loro restavano lì: Yakou, Anna, Madam Akà, Dadao e tutti i bambini di Oddos, Denis e Rina, Maiga e Solo, Mathias e Armand, Abou e Amed, Carole e Akwesson col piccolo Axel... Qualcuno di loro aveva votato Ouattara, qualcun altro Gbagbo, ma probabilmente tutti avrebbero accettato che il loro campione andasse all’opposizione pur di vedere il loro Paese finalmente in pace e pronto a ripartire. Invece adesso che cosa li aspetterà?
Appena arrivate io e la bimba siamo state travolte dalle incombenze natalizie, dai parenti troppo presenti e… dalla cocciutaggine di Leo!
Come avevo già intuito e cercato inutilmente di prevenire, mio marito ha infatti aspettato che noi fossimo in Italia per comunicarci che non voleva tornare nemmeno il 18 (data d’inizio delle sue vacanze già da tempo programmate). Alla fine è stato costretto dai suoi capi a tornare, per poi rimanere bloccato due giorni all’aeroporto di Parigi da una bufera di neve. Accampato allo Charles de Gaulle come Tom Hanks nel film “The Terminal”, senza soldi (o meglio: con soldi dell’Africa Occidentale che, nonostante l’abbiano colonizzata per più di un secolo, i francesi non cambiano; così ha cambiato con un addetto alle pulizie maliano che gli ha fatto un tasso da strozzino e poi gli ho dovuto mandare altri euro io tramite Western Union come ad un vero profugo politico), gli hanno perso pure il bagaglio. Per cui me lo sono visto arrivare all’uscio (finalmente a Milano) trasformato in una specie di pupazzo di neve in camicia hawaiana, sostenendo che avrebbe preferito avere alle calcagna le milizie gbagboiste.
Nella settimana in cui lui era rimasto lì, la situazione si era ulteriormente aggravata: i sostenitori di Ouattara avevano cercato di marciare verso il palazzo della tv di stato per prenderne possesso e insediare la nuova direzione, ma i mercenari di Gbagbo provenienti da Liberia e Sierra Leone gli hanno sparato addosso prima ancora che entrassero nel quartiere. Intanto l’Onu denunciava la sparizione di decine di oppositori (che ogni tanto venivano poi ritrovati uccisi a qualche angolo di strada), gli arresti sommari e tutte le violenze tipiche della situazione. Anche a Bassam: mentre polizia e sindaco trattavano sull’opportunità o meno di rimuovere le barricate, un gendarme ha pensato bene di gettare un fumogeno in moschea durante l’ora di preghiera. Per cui gli occupanti sono usciti e hanno dato fuoco al commissariato, alla macchina del commissario e alla sua casa. Sono allora usciti dalla loro tana i miliziani e hanno fatto un po’ di massacri. Anche negli ultimi giorni: Mathias ci ha raccontato che hanno cercato di rapire il sindaco e il prefetto. Le notizie ufficiali che ci giungono parlano di un ultimo tentativo di mediazione della CEDEAO (la Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale), dopo il quale – se Gbagbo non sarà partito – minacciano l’intervento armato.
Nonostante tutto ciò, Leo insiste che vuole tornare al più presto (e già gli è stato impedito di partire il 3 gennaio). Io capisco le sue pulsioni etico-morali (e le condivido) ma ritengo che vadano razionalizzate alla luce di due considerazioni: 1) la bilancia pende in questo momento più dal lato dei rischi che dell’utilità della sua presenza là (che non nego ci sia); 2) le sue responsabilità sono innanzitutto verso di noi, poi verso il suo lavoro (e per responsabilità intendo non solo che dovrebbe evitare di incappare nelle milizie che anche solo a scopo di rapina gli potrebbero tirare una randellata in testa, ma anche essere presente; d’altronde avevamo deciso di fare questa esperienza insieme e così non è più “insieme”).
Ma non vuol sentire ragioni e questo mi ferisce molto: non un pensiero a noi, non un dubbio che io possa aver ragione (l’ipotesi non è nemmeno presa in considerazione per assurdo), non un’esitazione, un tentennamento, neanche un po’ di tristezza nel separarci…
Dal canto mio, io mi sento abbastanza persa: al momento non si parla ovviamente di rientrare. Quindi sono qui, in una casa che mi sembra si sia ristretta e mi dà la claustrofobia (mentre Mary sbatte la testa da tutte le parti), in una città grigia e fredda, circondata dai parenti di cui sopra, senza sapere per quanto: devo cercarmi un lavoro (uno stipendio solo in Africa basta, a Milano no)? Devo cercare una scuola per Mary?
Boh, già mi stava sulle palle di dover interrompere questa mia esperienza il prossimo ottobre, ma vedermi rubare anche quei pochi preziosi ultimi mesi mi fa ribollire!
Non è la miglior disposizione d’animo per iniziare l’anno nuovo…