venerdì 13 gennaio 2012

Ritorno in Africa

Sorvolerò sul mio soggiorno natalizio: catapultata da un mondo all'altro, dove clima, ritmi, atmosfera sono completamente diversi; vivere con le valige fatte perché un giorno sei a Milano, l'altro a Tortona, Torino, Cuneo, Lecco, San Martino Siccomario, Varese; riabituarsi alle piccole-grandi idiosincrasie di parenti, concittadini, governanti...


Vieni da un Paese che ha cominciato l’anno appena finito, con una guerra civile e che nonostante questo, con la pace ritrovata, spera e freme per un futuro migliore. E arrivi in un Paese (il tuo) in cui sui megaschermi della Stazione Centrale proiettano instancabilmente la pubblicità della fiducia nel futuro, mentre la gente in giro per strada vede un baratro davanti a sé.

Torni per risolvere rogne che sembrano non risolversi mai, fino all’ultimo momento. Perché ogni soluzione porta con sé un'altra rogna. Quando finalmente arriva il giorno della partenza: tu pensi di essere riuscita a fare tutto. O almeno l’essenziale. Allora inizi a stressarti pensando a cosa potresti aver dimenticato. E mentre, mano a mano che le tue congetture si verificano infondate, inizi a illuderti che le rogne urgenti siano sotto controllo, ti arriva la tranvata dove meno te l’aspetti.

Ti presenti al banco check-in, per esempio, con lo stato d’animo di quella che dice: “Ce l’ho fatta: anche questa volta sono sopravvissuta al viaggio nell’Universo parallelo” (che provoca più o meno gli stessi effetti dell’analogo viaggio nella serie Tv Fringe: indebolimento del tessuto cellulare, ovvero: sfinimento).

Porgi il biglietto costatoti gli ultimi 1.300 euro che sei riuscita a spremere dal tuo conto in banca.

Infine porgi il passaporto, e una signorina gentile e simpatica come un calcio negli stinchi ti dice: “Lei non può partire”.

Il tuo tessuto cellulare sta per implodere, ma tu reagisci e domandi spiegazioni: il visto sul tuo passaporto riporta solo il tuo nome e non quello di Marysol.

“Sì è vero – ribatti – ma al Ministero degli Affari Esteri Ivoriano dicono che il visto vale per il passaporto, e quindi per tutti coloro che vi sono iscritti, come mia figlia” Sei un’agente dell’Fbi (ops… la moglie di un cooperante) che viaggia tra due dimensioni parallele, quindi lo sai (perché una volta Brussels Air Lines me l’ha fatto notare, ma poi dopo essersi rapidamente informata mi ha fatto partire).

“Chiedo il parere del mio capo – scalo” risponde quella, con l’aria di una che sta pensando: “Piuttosto mi pianterei degli stuzzicadenti sotto le unghie”.

“Il mio capo scalo ha detto di no” e t’aspetti pure il gesto dell’ombrello.

“Voglio parlare col capo-scalo”

“Ci faccia fare il nostro lavoro”

“È il vostro lavoro: voglio parlargli di persona”

“Non è ancora arrivato”

“Quando arriva?”

“Non so: 10 minuti, mezz’ora?” (tradotto: “No, ma può anche andare a farsi un giro. Intanto questo aereo non lo prende).

“Lo aspetto qui. Mi avverta quando arriva” (era diventata una sfida personale).

Intanto che aspetti, ti voti al tuo Santo protettore. Che in questo caso non è ancora santo, è solo Don; quindi una sua dichiarazione che attesti che tu stai viaggiando, e hai viaggiato in questi due anni (senza il minimo problema), per conto della sua Ong e con tua figlia, non serve.

Cerchi di estorcere alla stronza del check-in, informazioni su cosa dovresti fare, quale documento potrebbe servire a convincerli che non sei una rapitrice di bambini, in fuga.

Ma quando quella arriva a chiederti il permesso di soggiorno in Costa d’Avorio della bambina (semplicemente non esiste), vorresti raccontarle di quella volta che, andando verso il Ghana, i frontalieri ivoriani non erano venuti a metterci i timbri di uscita sui passaporti, perché pioveva e non avevano voglia di uscire dalle loro casematte.

Pensi questo, mentre lei afferma solennemente di aver ragione perché loro fanno un corso di “passaporti e visti”. E poi aggiunge: “Comunque può parlarne col capo-scalo: è nel suo ufficio, al terzo piano” (maledetta, mi ha fregato: io avevo chiesto quando arrivava, ma non dove; e lei non me l’ha detto, facendomi perdere minuti preziosi… avrei dovuto intuire che tramava qualcosa, quando mi ha dato il numero sbagliato del suo superiore).

Occupi l’ufficio del capo-scalo, che parla solo arabo o francese. Raccogli tutte le forze che hai e cerchi di rispiegare tutta la faccenda dall’inizio, in una lingua che l’agitazione rende più balbettante del solito (e non è l’arabo). Gli chiedi se può chiamare il suo omologo ad Abidjan per domandargli se lui accetterebbe un passeggero con i documenti come i miei.

Lui risponde che non può chiamare lui (chissà perché)… “Ma…” – e qui gli occhi dolci e le mossette di Marysol devono aver aperto una breccia – se l’aeroporto di Abidjan gli manda un messaggio di autorizzazione, mi fa partire.

Ora: non c’è Olive Dunam senza Peter Beshop. Io ho Leo, che assomiglia di più a Fox Moldern, ma che ha già allertato “l’unità di crisi” dell’ambasciata italiana in Costa d’Avorio. Quindi lo chiamo: “Abbiamo l’informazione: devi dirgli di contattare l’aeroporto di Abidjan, che contatti l’aeroporto di Malpensa”.

Le lancette corrono, il check-in sta per chiudersi. Ti fai dare il cellulare del capo-scalo, gli lasci il tuo (nel senso di numeri, non nel senso che ti prendi il suo blackberry e gli dai il tuo Samsung tenuto insieme con lo scotch).

Voli giù al banco check-in (tutto questo con 46 chili di valige e 20 di bimba preoccupata ma nello stesso tempo divertita da quell’avventura). Speri succeda qualcosa entro 60 secondi.

E arriva la telefonata di Renato dell’Ambasciata, il tuo nuovo migliore amico: “Abidjan ha appena mandato l’autorizzazione a Malpensa”.

Cerchi il capo-scalo sul telefonino: non risponde. Tenti di fermare la stronza che sta chiudendo il check-in e con una pernacchia ti fa capire che questo volo l’hai perso.

“Ne ho uno alle 16.30” ribatti con stizza infantile.

“Eh, ma non ha i biglietti”

“Sono cavoli vostri come mi mettete sul prossimo aereo, visto che siete stati voi a farmi perdere questo”

“Se ha ragione lei, sì”.

Infatti avevo ragione io: dopo un McDonald’s e una sigaretta, ho rioccupato l’ufficio del capo-scalo. Il quale, dopo aver cercato di spaventarmi ventilandomi una possibile penale per il cambio di biglietto, ha dovuto mettermi sul volo senza scucirmi altri soldi.

Tu vai e ringrazi pure. Perché, anche se ti hanno fatto perdere 10 anni di vita, non sei capace di incazzarti. Forse perché tu ritorni.

Ritorni e trovi che i gattini da due sono diventati sette. Le zanzariere sono distrutte. La lavatrice è rotta. Hai un nido di serpenti dietro casa. Ti cade anche una statuetta in legno massiccio sulla testa. Il bancomat non dà soldi e la banca non cambia euri (ho solo 1.000 franchi, buoni per il pranzo, tanto poi ‘stasera mi raggiunge Leo). E sei felice: perché comunque qui tutto sembra molto più gestibile!

Nessun commento:

Posta un commento