lunedì 27 giugno 2011

La Grande Sfida

Caio e Marysol sono uno di fronte all’altro e si fissano negli occhi puntandosi l’indice a vicenda:
“E se vinco?”
“E se invece vinco io?”
Segue silenzio carico di tensione e sguardi di sfida. Finché Caio propone:
“Mettiamo delle penitenze”
“Ok, chi perde viene riempito di botte!” ribatte Mary, che ormai è entrata nel mood dei bambini di strada ivoriani.
“Mh, - abbozza Caio – ma il premio qual è?”
A quel punto inizia una lunga dissertazione sulle regole da seguire e reciproche garanzie di “giocare pulito”. Ma ancora non si arriva a stabilire il premio. Dopo lunga riflessione, Marysol conclude:
“Ok, ho cambiato idea: la punizione per chi perde è semplicemente che non riceve alcun premio”
“Mi sta bene… ma allora il premio qual èèèèèèèèh?” insiste Caio impaziente.
“E’ non essere riempito di botte!” si intromette Leo.
Ma l’idea non soddisfa i contendenti; che ora, mani sui fianchi, girano uno intorno all’altro, senza mai abbassare lo sguardo. Quando la voce di Caio irrompe come un sibilo che spezza la suspence:
“Scommetto il mio computer contro Dado!” e si blocca davanti alla piccola, piedi piantati a terra, gambe larghe, braccia conserte.
A quelle parole, chiare, limpide e minacciose, mia figlia sgrana gli occhi e la bocca prende la forma di una enorme “o” tonda: “Noooooooooooo. Dado piangerà per un anno!!!!!!!!!” la voce rotta dall’emozione.
Il momento è grave: Dado è il bambolotto preferito di Marysol, ce l’ha da quando è nata e l’ha accompagnata in mille avventure. Ora rischia di perderlo. Ma la bimba sa che in questo ambiente se ti tiri indietro sei fatta!
Ora si tratterà di stabilire dove e quando (Marysol ha un’agenda fittissima), ma ormai è deciso: Caio e Mary si sfideranno a scopa… sul piatto: Dado il prediletto e, dall’altra parte, un computer carico di giochi e soprattutto…DI ROCK!!!!!!!!!!! (la nuova passione di mia figlia, che quando Caio le mette su i NoFX, lei scrolla la testa e agita il pugnetto come una vera invasata).
Prossimamente su questo blog. Non perdetevelo!

martedì 21 giugno 2011

Tiken Jah, il concerto della vita

Tan tan tantatan ta ta taaaaaaaaa
E poi le trombe
E poi la voce, calda e profonda: “Non non non non n’né tena son oma/ Non ne tésson oma ayebada/ N’tésson oma/ Ne tésson oma ayebada/ N’tésson oma…”
E la musica mi entra dentro la pancia dall’ombelico e mi scalda e le gambe si flettono e fanno male ma non riesco a smettere di ballare.

Lui è là, bellissimo: un omone gigantesco con una gran massa di dred che salta e balla, svolazzante nel suo boubou di iuta, e la sua voce gratta l’aria di questa splendida serata, non piove, non fa caldo, non ci sono zanzare. Il concerto è per la riconciliazione (per beneficenza -costruisce una scuola ad ogni concerto- e solo a 3 euro) ed è ad Abobo, il quartiere che più ha sofferto per la guerra, quello in cui hanno sparato sulle donne al mercato, quello del "commando invisibile". Lui ad ogni canzone ne spiega il significato e tutte parlano di pace, del bisogno di un'Africa unita, di "rivoluzione" intelligente, dell'importanza dello studiare, di come la cattiva politica ha ridotto il suo paese, lui che è dovuto andare in esilio 5 anni solo perché ha cantato "quitte le pouvoire" (molla il potere) a Gbagbo; parla dello sfruttamento che i bianchi "ci" fanno e poi "ci" chiudono le frontiere. Ogni canzone un pezzo di storia di questo Paese, un saggio antropologico.

Ancora trombe, malinconiche. Poi partono basso, chitarra, maracas, forse c’è anche un balafon. Classico ritmo reggae: “We wont a revolution/ young people’s revolution/ Intelligent revolution/ Must be african’s education”.
E Caio balla a piedi nudi nel fango.
E Taibou è l’unico africano che non sa ballare.
E Lina ha trovato un cappellino rasta bellissimo.
E Yakou sembra un bambino impazzito di gioia e canta tutte le canzoni in Dioulà (il dialetto "dei poveri" di tutta l'Africa occidentale).
E se ci fosse Marysol si divertirebbe un casino e farebbe stage-diving fino a Tiken Jah!

“Sors de ma télé, yehhhhhhh” e le braccia si lanciano in aria e sono diecimila con le altre e io non riesco a smettere, ora su una gamba ora sull’altra, e via: il sedere ondeggia da solo e i capelli mi vanno negli occhi.
E io e Caio siamo gli unici bianchi e tutti si fermano per conoscerci, per spiegarci cosa significhi per loro quella festa e che cosa significhi per loro che anche noi siamo lì.

Tam tam, poi sassofoni: “Viens voir, viens voir/Viens voir, viens voir /Toi qui parles sans savoir /Mon Afrique n'est pas ce qu'on te fait croire/Pas un mot sur l'Histoire de ce continent/Sur les civilizations et les richesses d'antan /Aucun mot sur le sens des valeurs/Des gens qui t'accueillent la main sur le coeur …”.
E siamo circondati dalle FRCI (l'armata nata dal connubio degli ex ribelli e disertori dell'esercito lealista che ha liberato il Paese e rappresenta l'unica forza dell'ordine al momento perché poliziotti e gendarmi sono scappati), tutti ragazzi, alcuni giovanissimi, tutti con maglietta "peace and love" e kalashnikov. Sì, lo so è una contraddizione e la presenza di tanti giovani armati è uno dei problemi di oggi. E forse ballare e farsi le canne con quelli che a loro volta ballano, fumano e sono ubriachi persi con un fucile in mano non è il massimo. Ma in questo momento mi sembrano bellissimi anche loro, mi sembrano ragazzi che hanno combattuto per il loro paese, che ora festeggiano la vittoria. Sono l'immagine di questo posto assurdo, di questo continente folle di cui mi sto innamorando. « …Viens voir /Viens voir, viens voir/Viens voir, viens voir/Toi qui parles sans savoir /Mon Afrique n'est pas ce qu'on te fait croire/Africa n'est pas ce qu'on te fait croire/Viens dans nos familles/Viens dans nos villages/Tu sauras ce qu'est l'hospitalité /La chaleur, le sourire, la générosité/Viens voir ceux qui n'ont rien /Regarde comme ils savent donner/Tu repartiras riche/Et tu ne pourras pas oublier… ».

domenica 12 giugno 2011

La vita che ho scelto

La vita che ho scelto è correre in riva al mare di Assouendé sotto la pioggia. Fermarsi, insegnare a Mary la respirazione “dei grandi atleti” e ripararsi sotto la tettoia del ClubMed abbandonato. Costruire nella sabbia una pista per le biglie e giocare.
La vita che ho scelto è passare una serata sulla spiaggia con Caio e Lina a indovinare le forme delle nuvole.
La vita che ho scelto è osservare il tramonto sulla laguna, quando l’acqua e il cielo si tingono di rosa e giallo.
La vita che ho scelto è incontrare persone strane e diverse. Alcune simpatiche e interessanti, altre che mi disturbano; ma tutte che mi danno qualcosa.
La vita che ho scelto è cercare di dare il mio contributo a tutto ciò che fa la CommAbel (giusto per dare un’idea di quello che si fa: formazione professionale a un centinaio di ragazzi in agricoltura, elevage, sartoria, falegnameria, meccanica, ecc.; corsi di alfabetizzazione a 500 persone -uomini, donne, bambini, cani e gatti-; scuola materna a 20 bimbi; diamo un pasto al giorno a 100 ragazzi; garantiamo libero accesso a biblioteca, sala giochi, atelier di musica; ospitiamo 200 rifugiati di guerra e attraverso Save the Children abbiamo distribuito kit alimentari e igienico-sanitari per i rifugiati della città; stiamo portando acqua potabile in 5 quartieri e villaggi; stiamo iniziando un progetto finanziato dall'Onu sulla coesione sociale post-guerra; organizziamo dibattiti nelle scuole sul tema delle gravidanze precoci; festeggiamo con musica canti e balli ogni tipo di ricorrenza -cristiana, musulmana, civile, ecc.-; portiamo in giro una carovana di film).
La vita che ho scelto è un viaggio: stando ferma, “giro, vedo gente, faccio cose”. Banale? Troppo facile? Demodé? Da freakettoni irresponsabili? Forse. Ma è la vita che ho scelto… e pochi lo fanno. Certo: io ho potuto. Ma ho potuto perché l’ho voluto. E l’ho voluto perché mi sembra che sia l’unico modo per poter dire di aver vissuto veramente. Perché esploro, scopro, perché sono bombardata quotidianamente da emozioni fortissime.
La vita che ho scelto è l’unico lusso che mi interessa.
La vita che ho scelto ve la voglio raccontare perché ho sempre sognato di diventare una “Piero Angela” e questo è un po’ un modo per fare un “documentario dal basso” (anche se forse assomiglia di più alla parodia che Neri Marcoré faceva di Alberto Angela nell’Ottavo Nano).
La vita che ho scelto ho cercato di spiegarla a mia figlia. Le abbiamo detto finalmente che rimarremo qui ancora per un po’ di anni. Lei ha chinato il capo in avanti per qualche secondo e non ha detto niente. Poi ha iniziato a correre e giocare sul bagnasciuga con Leo.
Non ne abbiamo più riparlato, ma sembra più serena, anche solo per il fatto di sapere finalmente con certezza dove trascorrerà il suo futuro.
E comunque, da quando gliel’abbiamo detto il suo atteggiamento verso il mondo che la circonda è più intraprendente.
Ora ha finito la scuola, ma continuiamo a mandarla alla Petite Enfance del Carrefour Jeunesse dove si scatena coi bimbi di strada. Il pomeriggio invece lo passa coi bimbi deplacés o con gli apprendisti del Centre. Si diverte, fa molte esperienze di interazione con soggetti diversi. E con tutti si trova perfettamente a suo agio. È felice. E questo basta.
La vita che ho scelto è vederla intrufolarsi in un corteo per i diritti dei bambini africani, unica piccola africana bianca.

lunedì 6 giugno 2011

Se 6 anni sembran pochi

Oggi la mia bimba compie 6 anni.

SEI ANNI!!!!!!!!! MA VI RENDETE CONTO???????

Sei anni sono un passaggio importante: come dice Caio, tanto per cominciare, d’ora in avanti ci vorranno due mani per mostrare l’età sulla punta delle dita.
E poi sei anni è l’età in cui si cominciano le elementari… e qui si presentano i primi problemi: lei è convinta di farle in Italia, ora le dovremmo dire che abbiamo deciso di restare in Africa.
Questa storica decisione l’ho finora appena accennata, ma non spiegata. E non ne ho voglia neanche adesso. Non c’è niente da spiegare… sì, ok, io poi mi posso mettere a fare il discorso che mi sono ripetuta più volte per i parenti. Ma sono solo razionalizzazioni a posteriori: sì, è vero, avevo una paura fottuta di tornare a vivere in Italia, paura di non trovare lavoro o di essere costretta ad accettarne uno qualunque, di costringere Leo a fare altrettanto, di incattivirmi. Ma soprattutto non capivo perché sarei dovuta tornare: a Leo il contratto scadrebbe ad ottobre prossimo venturo, ma a Torino sarebbero ben contenti di rinnovarglielo, e lui sente di non aver ancora terminato il suo percorso qui. Anche io avevo ancora cose di cui raccontare su questo blog (a molti non sembrerà un granché, come lavoro non è nemmeno retribuito, ma è pur sempre meglio che regalare la tua luce del giorno ad un padrone).
Poi sì, è vero, qui c’è la guerra (o meglio: c’è stata), c’è la malaria, ci sono un sacco di brutte cose. Ma mi sembra una vita più vera di quella passata a farsi inghiottire dalla metropolitana tutte le mattine per poi esserne risputata fuori quando ormai è già buio. Una vita vissuta alla luce del neon e dello schermo del computer (tutto è artificiale), in cui si diventa matti per far quadrare i conti, per star dietro a tutto, in cui il rubinetto che perde diventa una catastrofe (qui quando gocciola, almeno vuol dire che l’acqua c’è!).
Avrei deciso di tornare solo per gli altri. Per la suocera, per la figlia, per la sorella. Ho scelto di essere egoista.

Sei anni è sicuramente anche un momento molto delicato: io mi ricordo per esempio che per me fu un po’ un trauma passare dalla casa di mia nonna dove vivevo con 5 cani e 7 gatti, dalla materna, frequentata a Viguzzolo, alle elementari di Tortona, nella casa coi miei e mia sorella.
A Marysol sto chiedendo di fare molto di più, di passare da Milano a Bassam! Ma la mia bimba è in gamba, assai (bisogna solo farle capire che non è così terribile come pensa –visto che qualcuno le ha messo in testa che qui alle elementari picchiano… e non indago su chi possa essere stato perché se lo scopro sarei io ad alzare le mani!).
E io la proteggerò da tutte le cose brutte e farò di tutto perché ciò che la circonda assomigli sempre di più (già molto gli somiglia) al suo Paese delle Meraviglie; e lei crescerà felice in un mondo che altrimenti non avrebbe mai potuto neanche immaginare (nel bene e nel male) e questo farà di lei un’adulta migliore di altri (come madre non posso sperare di meglio). In fondo anche io, superate le difficoltà iniziali, ero felice a Tortona. Basta essere insieme noi tre. Ovunque.
E pazienza se questo le insegnerà ad ubbidire alla voce del cuore, se questo un giorno farà partire anche lei per esplorare nuovi mondi, lontano da noi. Sarà donna.
Per ora mi godo la bimba, la sua allegria, la sua dolcezza, le lenti attraverso cui guarda al mondo, l’orgoglio che provo quando camminiamo mano nella mano e io penso: questa l’ho fatta io, ma non è merito mio, guardate tutti che incanto, come cresce! Adesso è una bimba grande, adesso ha sei anni (e io al suo fianco un po’ invecchio ma soddisfatta, invecchio bene).
Per ora le regalo la bici per iniziare a pedalare un po’ in questa vita.

Tanti auguri Marysol, con dei genitori come noi ne hai bisogno!

giovedì 2 giugno 2011

Storia di Abou

Abou è uno dei nostri guardiani. Un signore/ragazzo dall’età indefinibile, magro, alto, pelato con grandi occhi tondi e miti.
Arriva sulla sua bici tutte le sere, pantaloni di tela blu arrotolati al ginocchio, camicia come usano qui (sembra un po’ una giacca, un grembiule da commesso), verde scuro. Saluta e ringrazia perché anche noi lo salutiamo. Si carica il gatto sulla spalla e se lo porta a fare una passeggiata, coccolandoselo mentre controlla quanti conigli ci hanno rubato oggi o se ci sono magnà (formiche carnivore) pronte all’attacco. Poi torna per riportare il gatto e ringrazia ancora (non so per che cosa… forse pensa di dover ringraziare tutte le volte che qualcuno non lo prende a calci!). Quindi si mette sotto l’apatame, che è quasi come una casa per lui: si arrangia le sue cose, ogni tanto si fa il bucato, spesso lo si vede accucciato su un fornelletto a carbone che si scalda il tè, tra una ronda e l’altra. Anche in notti come questa, in cui infuria la tempesta e non c’è corrente, vedi la sagoma della sua cerata gialla da guardiano del faro, aggirarsi illuminandosi il sentiero alla flebile luce di una torcia.

Abou viene dal Burkina. Là faceva il pastore e un giorno si è avventurato in un viaggio biblico per venire a vendere del bestiame qui a Grand Bassam. Non ho idea di quanti chilometri siano, ma non è tanto la distanza fisica che può darne l’idea: cerco di immaginarmelo, lui, analfabeta, che non parla quasi francese, che ha sempre vissuto nel suo villaggio, che con quella sua aria vulnerabile si accinge ad attraversare confini, quello delle cose conosciute, quello di un altro Paese, le sue personali Colonne d’Ercole, e poi ancora tutta la Costa d’Avorio da Nord a Sud. Mosso dal miraggio dell’affare della vita.
Non so nemmeno COME sia arrivato qui, presumibilmente in treno, ma non mi stupirebbe se lo avesse fatto a piedi.
Quello che so, invece, è che arrivato qui non ha trovato il tizio a cui doveva vendere le sue vacche. E quindi non ha più avuto i soldi per tornare.
Poi ha trovato lavoro alla Communauté Abel. Ma i soldi non bastano mai per tornare. Così sono passati cinque anni. Cinque anni senza dare notizie alla famiglia, e naturalmente senza riceverne. Cinque anni, prima che i nostri predecessori del progetto scoprissero la sua storia e gli donassero i soldi per andare a trovare la famiglia.
Là, ha trovato che la moglie era stata data al fratello: tutti infatti si erano rassegnati all’idea che fosse morto. Così ha lasciato ciò che non aveva più (figli compresi) e se ne è tornato.

Al venerdì lo vedi partire agghindato di tutto punto col boubou per andare in moschea. È elegantissimo con la sua figura snella avvolta in uno splendente basin di un bianco abbacinante.
È un tipo taciturno, dall’aria triste e sola. Tranne quando può parlare il suo dialetto con qualcuno. Spesso lo viene a trovare Koné, uno degli educatori che dorme al dortoire, uno del Nord anche lui (qui ci sono tante etnie, tante tribù, ma la distinzione che sento più spesso è data dall’appartenenza ai punti cardinali). Allora si sentono le loro risate nella notte. Mettono di buon umore quando le senti prima di addormentarti, sono i miei folletti.
Abou è nel lungo elenco di quelli per cui vorrei una vita diversa, tra quelli che conosco qua.
Non so esattamente che cosa posso fare io per aiutarli. Per ora racconto le loro storie. È un modo per tirare fuori la dignità (enorme) nascosta (molto) in quelle esistenze.
E aspetto l’occasione un giorno anche solo per un piccolo gesto che possa fargli sentire la mia vicinanza a loro.