giovedì 2 giugno 2011

Storia di Abou

Abou è uno dei nostri guardiani. Un signore/ragazzo dall’età indefinibile, magro, alto, pelato con grandi occhi tondi e miti.
Arriva sulla sua bici tutte le sere, pantaloni di tela blu arrotolati al ginocchio, camicia come usano qui (sembra un po’ una giacca, un grembiule da commesso), verde scuro. Saluta e ringrazia perché anche noi lo salutiamo. Si carica il gatto sulla spalla e se lo porta a fare una passeggiata, coccolandoselo mentre controlla quanti conigli ci hanno rubato oggi o se ci sono magnà (formiche carnivore) pronte all’attacco. Poi torna per riportare il gatto e ringrazia ancora (non so per che cosa… forse pensa di dover ringraziare tutte le volte che qualcuno non lo prende a calci!). Quindi si mette sotto l’apatame, che è quasi come una casa per lui: si arrangia le sue cose, ogni tanto si fa il bucato, spesso lo si vede accucciato su un fornelletto a carbone che si scalda il tè, tra una ronda e l’altra. Anche in notti come questa, in cui infuria la tempesta e non c’è corrente, vedi la sagoma della sua cerata gialla da guardiano del faro, aggirarsi illuminandosi il sentiero alla flebile luce di una torcia.

Abou viene dal Burkina. Là faceva il pastore e un giorno si è avventurato in un viaggio biblico per venire a vendere del bestiame qui a Grand Bassam. Non ho idea di quanti chilometri siano, ma non è tanto la distanza fisica che può darne l’idea: cerco di immaginarmelo, lui, analfabeta, che non parla quasi francese, che ha sempre vissuto nel suo villaggio, che con quella sua aria vulnerabile si accinge ad attraversare confini, quello delle cose conosciute, quello di un altro Paese, le sue personali Colonne d’Ercole, e poi ancora tutta la Costa d’Avorio da Nord a Sud. Mosso dal miraggio dell’affare della vita.
Non so nemmeno COME sia arrivato qui, presumibilmente in treno, ma non mi stupirebbe se lo avesse fatto a piedi.
Quello che so, invece, è che arrivato qui non ha trovato il tizio a cui doveva vendere le sue vacche. E quindi non ha più avuto i soldi per tornare.
Poi ha trovato lavoro alla Communauté Abel. Ma i soldi non bastano mai per tornare. Così sono passati cinque anni. Cinque anni senza dare notizie alla famiglia, e naturalmente senza riceverne. Cinque anni, prima che i nostri predecessori del progetto scoprissero la sua storia e gli donassero i soldi per andare a trovare la famiglia.
Là, ha trovato che la moglie era stata data al fratello: tutti infatti si erano rassegnati all’idea che fosse morto. Così ha lasciato ciò che non aveva più (figli compresi) e se ne è tornato.

Al venerdì lo vedi partire agghindato di tutto punto col boubou per andare in moschea. È elegantissimo con la sua figura snella avvolta in uno splendente basin di un bianco abbacinante.
È un tipo taciturno, dall’aria triste e sola. Tranne quando può parlare il suo dialetto con qualcuno. Spesso lo viene a trovare Koné, uno degli educatori che dorme al dortoire, uno del Nord anche lui (qui ci sono tante etnie, tante tribù, ma la distinzione che sento più spesso è data dall’appartenenza ai punti cardinali). Allora si sentono le loro risate nella notte. Mettono di buon umore quando le senti prima di addormentarti, sono i miei folletti.
Abou è nel lungo elenco di quelli per cui vorrei una vita diversa, tra quelli che conosco qua.
Non so esattamente che cosa posso fare io per aiutarli. Per ora racconto le loro storie. È un modo per tirare fuori la dignità (enorme) nascosta (molto) in quelle esistenze.
E aspetto l’occasione un giorno anche solo per un piccolo gesto che possa fargli sentire la mia vicinanza a loro.

Nessun commento:

Posta un commento