domenica 12 febbraio 2012

Che peccato!

Ore 19.30: sulla spianata del Carrefour Jeunesse ci saranno almeno 300 persone, in attesa di assistere alla finale della CAN 2012.

Tutte sono convinte di vincere. Già nei giorni scorsi per radio si sentivano inni estemporanei e canzoni composte per l’occasione, tutte che celebravano la vittoria degli Elephants. Una cosa che la scaramanzia del tifoso italiano ripudierebbe, ma qui… l’ottimismo e la positività di questa gente sono tutte da imparare! Anche se ogni tanto lasciano delle gran scottature…

Noi siamo “in tribuna”: possiamo goderci la partita dal terrazzo del Restò, prospiciente allo schermo gigante; seduti, nessuno davanti, birra e pop corn. Ci siamo fatti contagiare e siamo tutti arancioni. Ridiamo delle battute tra gbagboisti e pro-Ouattara: c’è chi ricorda che quando la Costa d’Avorio vinse la sua unica Coppa d’Africa, l’anno successivo il presidente (Houphouet Boigny) morì (augurando implicitamente la stessa fine a quello attualmente in carica); gli altri rispondono invece che in quel periodo Gbagbo era in galera (sperando che presto vi ritorni definitivamente).

Poi il match comincia e la tensione sale. Nessuno ha più voglia di scherzare: si capisce subito che anche “i ragazzi” sono scesi in campo convinti che lo Zambia sia un avversario facile da battere. Anche se ha sconfitto il Ghana. Perché –sono i commenti- i migliori giocatori dei Leoni erano rimasti nei loro club europei anziché partire per la Guinea Equatoriale.

Lì, in maglia arancione, a cantare l’Abidjanese, si vedevano invece sfilare, mano sul petto, Drogba, Gervinho, Yaya Touré, Kalou.

Sono lì, ma sbagliano: il primo è il giocatore del Chelsea, che si mangia un rigore sparandolo sopra la traversa. Per lui, secondo errore dal dischetto, in questa Coupe d’Afrique.

A quel punto Mathias si alza e se ne va: “Non riesco a reggere la tensione” confessa il direttore del Carrefour, e va a rintanarsi nel suo ufficio, lì di fianco. Yakou è dal primo minuto che è pietrificato, non riesce nemmeno a bere.

Le porte restano inviolate, la partita si fa lunga, tra parate accolte come trionfi, gol mancati di fronte a 600 mani portate nei capelli, urla di incoraggiamento.

Fino alla fine. Fino ai rigori. Anche quando ormai sembra tutto perduto, dopo l’errore di Bamba… ma l’arbitro fa ripete il tiro: sì, si può ancora sperare! Si va avanti ad oltranza (saranno 18 i rigori calciati alla fine); anche il portiere dello Zambia si cimenta nel tiro. Poi Kolo Touré sbaglia, la piazza sotto di noi è col fiato sospeso; anche lo Zambia sbaglia e la terra trema sotto i piedi per l’esultanza dei tifosi. Quindi è il turno di Gervinho. Che (ancora) sbaglia. Lo zambia invece questa volta no.

Yakou, che dopo i supplementari aveva iniziato a passeggiare nervosamente con le mani giunte sotto il mento e lo sguardo che andava dallo schermo al cielo continuamente, si accascia a terra piangente. Solo Marysol riuscirà a convincerlo a rialzarsi e tornare a casa.

La spianata si svuota in fretta e nel silenzio.

Ma, come ho detto, dalla positività di questa gente c’è solo da imparare: questa mattina sono arrivata a scuola (a portare la piccola, io ho finito già da un po’ le elementari) e ho trovato la direttrice fuori dal cortile deserto; la suora spagnola si guardava intorno con aria smarrita (ancora più smarrita della mia, che arrivo sempre trafelata e sconvolta, visto che risveglio e preparativi rappresentano le due ore più intense di tutta la mia giornata), non riusciva a concepire che il presidente, al termine della partita avesse proclamato un giorno di ferie a sorpresa per oggi. E non per lutto, ma per festeggiare i ragazzi, accolti come eroi nel pomeriggio di oggi all’aeroporto, e che hanno avuto il merito di arrivare fino alla finale…

Non c’è che dire: il bicchiere è mezzo pieno!

domenica 5 febbraio 2012

CAN 2012

Un anno dopo la Guerra Civile, la Costa d’Avorio si candida a conquistare la Coupe d’Afrique des Nations (la versione africana dell’Europeo di calcio).
Dopo aver battuto con un secco 3-0 la Guinea Equatoriale, nazione organizzatrice, nei quarti di finale, agli Elephants restava solo un temibile avversario, il Ghana.

Yakou mi ha raccontato dell’indimenticabile finale dell’edizione 1992, quando proprio col Ghana, la Costa d’Avorio fu protagonista di un match infinito: dopo i tempi regolamentari, si andò ai supplementari e quindi ai rigori; ne dovettero battere ben 11 prima che i nostri passassero in vantaggio, perfino i portieri avevano dovuto tirare dal dischetto.

Ora: nel caso di un analogo epilogo si potrebbe parlare tranquillamente di sorcellerie (e già così, al mattino dei giorni in cui Drogba e compagni scendono in campo, all’incrocio fuori da casa nostra, si trovano i resti dei sacrifici effettuati per un buon esito dell’incontro… fortunatamente di solito si tratta di semplici cocchi bruciati – niente in confronto ai topi e lucertole sventrate che i miei micini mi fanno trovare accanto alla porta).

Ma anche il caso di una nuova vittoria, per quanto meno spettacolare, nell’ipotetica finale contro il Ghana, sarebbe una “magia”.

Se penso ad un anno fa esatto: qui la situazione iniziava a farsi calda, i tentativi di mediazione per convincere Gbagbo a cedere il potere all’eletto Ouattara erano falliti uno via l’altro; le banche avevano chiuso per mancanza di liquidi; la popolazione era allo stremo, ma ancora reggeva l’urto degli sfollati che fuggivano dalla capitale e dalle altre zone in cui gli scontri iniziavano a farsi sempre più frequenti e sanguinosi.

Era più o meno in quel periodo che i miliziani del presidente uscente avevano sparato su una manifestazione di donne, e poi su un mercato in uno dei feudi di Ouattara. Ed era in quei giorni che si iniziava a sentir parlare del Commando Invisibile di Abobo.

Ne sono seguiti 3.000 morti e più di un milione di deplacés. Tempi duri.

L’altra sera sono andata a seguire la partita al Carrefour Jeunesse. La spianata, sotto allo schermo gigante, era quasi interamente affollata di tifosi in maglia arancione. Probabilmente, sotto i colori nazionali, alcuni indossavano la canottiera col faccione dell’ex-presidente e altri quella con l’attuale.

Ma erano lì. E allora ho pensato che una vittoria (come ai tempi d’oro in cui l’unico faccione era ancora quello del primo presidente Houphouet Boigny e Abidjan sembrava Manhattan) sarebbe molto più efficace di tante iniziative sulla coesione sociale. Magari addirittura un impulso per l’economia.

Sicuramente sarebbe un bel regalo per i tanti miei amici che ancora arrancano: Yakou che dopo la Pace ha investito molto sul suo magasin di souvenirs per poi scoprire che i turisti tardano ad arrivare e quindi è tornato a rischiare la vita quotidianamente alla guida dei cinq-cent-quatre; Amhad, il vecchio rasta che ha girato tutta l’Europa e che campava noleggiando strumenti musicali, ormai tutti distrutti; Sulras, anche lui musicista reggae, che ha rinunciato alla sua occasione perché le pratiche burocratiche per andare in Francia a firmare con un’importante etichetta erano troppo complicate per lui e ora fa il manovale nei cantieri e organizza concerti in memoria di Bob Marley (oltre a bere massicce quantità di koutoukou); o Agnes, che ancora non ho capito come riesca, col modesto stipendio da cuoca e i suoi scarsissimi mezzi culturali, a tirare avanti da sola una famiglia di sei figli e due nipoti (più altri che capitano), tutti “per bene”.
O come Taibou, l’amico che un giorno ha telefonato per dire che (proprio approfittando della CAN) andava a vivere in Guinea… proprio come in una canzone: da un giorno all’altro, partito.

Non mi resta che augurargli “Good luck, good bye…” [Bobby Jean, Bruce Springsteen].

E aggiornarvi sul seguito della Coppa d’Africa.

venerdì 13 gennaio 2012

Ritorno in Africa

Sorvolerò sul mio soggiorno natalizio: catapultata da un mondo all'altro, dove clima, ritmi, atmosfera sono completamente diversi; vivere con le valige fatte perché un giorno sei a Milano, l'altro a Tortona, Torino, Cuneo, Lecco, San Martino Siccomario, Varese; riabituarsi alle piccole-grandi idiosincrasie di parenti, concittadini, governanti...


Vieni da un Paese che ha cominciato l’anno appena finito, con una guerra civile e che nonostante questo, con la pace ritrovata, spera e freme per un futuro migliore. E arrivi in un Paese (il tuo) in cui sui megaschermi della Stazione Centrale proiettano instancabilmente la pubblicità della fiducia nel futuro, mentre la gente in giro per strada vede un baratro davanti a sé.

Torni per risolvere rogne che sembrano non risolversi mai, fino all’ultimo momento. Perché ogni soluzione porta con sé un'altra rogna. Quando finalmente arriva il giorno della partenza: tu pensi di essere riuscita a fare tutto. O almeno l’essenziale. Allora inizi a stressarti pensando a cosa potresti aver dimenticato. E mentre, mano a mano che le tue congetture si verificano infondate, inizi a illuderti che le rogne urgenti siano sotto controllo, ti arriva la tranvata dove meno te l’aspetti.

Ti presenti al banco check-in, per esempio, con lo stato d’animo di quella che dice: “Ce l’ho fatta: anche questa volta sono sopravvissuta al viaggio nell’Universo parallelo” (che provoca più o meno gli stessi effetti dell’analogo viaggio nella serie Tv Fringe: indebolimento del tessuto cellulare, ovvero: sfinimento).

Porgi il biglietto costatoti gli ultimi 1.300 euro che sei riuscita a spremere dal tuo conto in banca.

Infine porgi il passaporto, e una signorina gentile e simpatica come un calcio negli stinchi ti dice: “Lei non può partire”.

Il tuo tessuto cellulare sta per implodere, ma tu reagisci e domandi spiegazioni: il visto sul tuo passaporto riporta solo il tuo nome e non quello di Marysol.

“Sì è vero – ribatti – ma al Ministero degli Affari Esteri Ivoriano dicono che il visto vale per il passaporto, e quindi per tutti coloro che vi sono iscritti, come mia figlia” Sei un’agente dell’Fbi (ops… la moglie di un cooperante) che viaggia tra due dimensioni parallele, quindi lo sai (perché una volta Brussels Air Lines me l’ha fatto notare, ma poi dopo essersi rapidamente informata mi ha fatto partire).

“Chiedo il parere del mio capo – scalo” risponde quella, con l’aria di una che sta pensando: “Piuttosto mi pianterei degli stuzzicadenti sotto le unghie”.

“Il mio capo scalo ha detto di no” e t’aspetti pure il gesto dell’ombrello.

“Voglio parlare col capo-scalo”

“Ci faccia fare il nostro lavoro”

“È il vostro lavoro: voglio parlargli di persona”

“Non è ancora arrivato”

“Quando arriva?”

“Non so: 10 minuti, mezz’ora?” (tradotto: “No, ma può anche andare a farsi un giro. Intanto questo aereo non lo prende).

“Lo aspetto qui. Mi avverta quando arriva” (era diventata una sfida personale).

Intanto che aspetti, ti voti al tuo Santo protettore. Che in questo caso non è ancora santo, è solo Don; quindi una sua dichiarazione che attesti che tu stai viaggiando, e hai viaggiato in questi due anni (senza il minimo problema), per conto della sua Ong e con tua figlia, non serve.

Cerchi di estorcere alla stronza del check-in, informazioni su cosa dovresti fare, quale documento potrebbe servire a convincerli che non sei una rapitrice di bambini, in fuga.

Ma quando quella arriva a chiederti il permesso di soggiorno in Costa d’Avorio della bambina (semplicemente non esiste), vorresti raccontarle di quella volta che, andando verso il Ghana, i frontalieri ivoriani non erano venuti a metterci i timbri di uscita sui passaporti, perché pioveva e non avevano voglia di uscire dalle loro casematte.

Pensi questo, mentre lei afferma solennemente di aver ragione perché loro fanno un corso di “passaporti e visti”. E poi aggiunge: “Comunque può parlarne col capo-scalo: è nel suo ufficio, al terzo piano” (maledetta, mi ha fregato: io avevo chiesto quando arrivava, ma non dove; e lei non me l’ha detto, facendomi perdere minuti preziosi… avrei dovuto intuire che tramava qualcosa, quando mi ha dato il numero sbagliato del suo superiore).

Occupi l’ufficio del capo-scalo, che parla solo arabo o francese. Raccogli tutte le forze che hai e cerchi di rispiegare tutta la faccenda dall’inizio, in una lingua che l’agitazione rende più balbettante del solito (e non è l’arabo). Gli chiedi se può chiamare il suo omologo ad Abidjan per domandargli se lui accetterebbe un passeggero con i documenti come i miei.

Lui risponde che non può chiamare lui (chissà perché)… “Ma…” – e qui gli occhi dolci e le mossette di Marysol devono aver aperto una breccia – se l’aeroporto di Abidjan gli manda un messaggio di autorizzazione, mi fa partire.

Ora: non c’è Olive Dunam senza Peter Beshop. Io ho Leo, che assomiglia di più a Fox Moldern, ma che ha già allertato “l’unità di crisi” dell’ambasciata italiana in Costa d’Avorio. Quindi lo chiamo: “Abbiamo l’informazione: devi dirgli di contattare l’aeroporto di Abidjan, che contatti l’aeroporto di Malpensa”.

Le lancette corrono, il check-in sta per chiudersi. Ti fai dare il cellulare del capo-scalo, gli lasci il tuo (nel senso di numeri, non nel senso che ti prendi il suo blackberry e gli dai il tuo Samsung tenuto insieme con lo scotch).

Voli giù al banco check-in (tutto questo con 46 chili di valige e 20 di bimba preoccupata ma nello stesso tempo divertita da quell’avventura). Speri succeda qualcosa entro 60 secondi.

E arriva la telefonata di Renato dell’Ambasciata, il tuo nuovo migliore amico: “Abidjan ha appena mandato l’autorizzazione a Malpensa”.

Cerchi il capo-scalo sul telefonino: non risponde. Tenti di fermare la stronza che sta chiudendo il check-in e con una pernacchia ti fa capire che questo volo l’hai perso.

“Ne ho uno alle 16.30” ribatti con stizza infantile.

“Eh, ma non ha i biglietti”

“Sono cavoli vostri come mi mettete sul prossimo aereo, visto che siete stati voi a farmi perdere questo”

“Se ha ragione lei, sì”.

Infatti avevo ragione io: dopo un McDonald’s e una sigaretta, ho rioccupato l’ufficio del capo-scalo. Il quale, dopo aver cercato di spaventarmi ventilandomi una possibile penale per il cambio di biglietto, ha dovuto mettermi sul volo senza scucirmi altri soldi.

Tu vai e ringrazi pure. Perché, anche se ti hanno fatto perdere 10 anni di vita, non sei capace di incazzarti. Forse perché tu ritorni.

Ritorni e trovi che i gattini da due sono diventati sette. Le zanzariere sono distrutte. La lavatrice è rotta. Hai un nido di serpenti dietro casa. Ti cade anche una statuetta in legno massiccio sulla testa. Il bancomat non dà soldi e la banca non cambia euri (ho solo 1.000 franchi, buoni per il pranzo, tanto poi ‘stasera mi raggiunge Leo). E sei felice: perché comunque qui tutto sembra molto più gestibile!