martedì 22 dicembre 2009

Fine prima parte

La vigilia del rientro in Italia per le festività natalizie non può che essere dedicata a un primo bilancio di questa esperienza: positivo.
Cosa mi è mancato di più dell’Italia? Una connessione veloce a internet.
Momenti da ricordare: il matrimonio di Gino e Gina, la sua compagna ivoriana (festeggiato in un maquis sulla spiaggia di Abidjan, con mangiata, bevuta e balli sfrenati); un'ottima polenta e casola (piatto tipico invernale milanese a base di cotiche, verza e salsicce) preparata e offerta da Nina nel suo bel ristorante in riva al mare (per fortuna c'era un po' di brezza dell'oceano, perché non proprio una pietanza che si possa gustare con questo clima)
Che cosa ho scoperto? Oltre alle cose che ho già raccontato, ho scoperto Aya de Yopougon (un fumetto ambientato in un quartiere popolare di Abidjan, che fa un ritratto impietosamente verosimile degli ivoriani, soprattutto gli uomini, beoni e donnaioli); l’alloco (banane plantain fritte nell’olio di palma, una vera delizia che mi ha fatto decidere definitivamente di dirottare le mie noiosissime lezioni di francese su lezioni di cucina – e quindi inaugurerò qui di fianco una rubrica di ricette… sempre che riesca a capire come si fa); e la musica di Aplha Blondy e Tiken Jah Fakoly.
Soprattutto, ho ri-scoperto le cassette: il pick up con cui ci spostiamo ha infatti un mangianastri e una dotazioni di vecchi album. Ho così avuto modo di fare un’altra scoperta: ci sono alcune nostre canzoni che incredibilmente ben si adattano come colonna sonora per i paesaggi che attraversiamo. I CCCP per esempio sono perfetti per il lungo rettilineo costeggiato di palme e baracche che ci porta alla capitale e i Casinò Royale ben si adattano alle strade intasate dal traffico di Abidjan, soprattutto se piove.Allora ho provato a fare un piccolo esperimento. Ecco il risultato:
[qui dovrebbe comparire un video, ma siccome i mezzi tecnici a mia disposizione -telecamera, macchina foto, hard disk- mi stanno lentamente abbandonando causa clima troppo umido, non so se mai lo finirò]

domenica 20 dicembre 2009

La sorcellerie

Nina è una tipica signora milanese, ex estetista, che, sposatasi con un ivoriano anni fa, si è trasferita qui a Bassam dove ha aperto un elegantissimo ristorante sulla spiaggia, molto frequentato da personale dell’Onu e ambasciate.
Nina è talmente milanese che l’altra sera ci ha invitato tutti da lei a mangiare un’ottima casöla (faceva un po’ specie abbuffarsi di quello stufato di cotiche in riva all’oceano e con una temperatura di 30 gradi).
La prima volta che ho sentito parlare di lei ero ancora in Italia, non per la fama del suo locale, ma per i “sei gradi di separazione” (se conosci uno, questo conosce un altro, che conosce un altro…- e così per circa sei volte - … che conosce te). Qui ho scoperto che questa regola è molto vera: in effetti a parlarci di Nina era stato un ex collega di Leo che la conosceva prima che lei partisse per la Costa d’Avorio; inoltre qui abbiamo ritrovato l’ex fidanzata di un nostro amico senegalese di Milano; e un prete che era chierico nella mia parrocchia quando ancora frequentavo quei posti (vent’anni fa); e la signora Luisa, “madrina” di un attuale collega di Leo quando tentò fortuna nel nostro Paese, che conosce mio suocero; per non parlare di Gina che ha conosciuto il marito ivoriano di una del Gruppo Abele di Torino, prima di entrarvi a far parte, e… insomma potrei andare avanti con altri esempi, ma questo non c’entra con la sorcellerie, che non è né una fabbrica di sorci né un fan-club di Renato Zero, bensì la stregoneria.
La stregoneria è legata alla religione animista (cioè quella tradizionale, che qui è seguita da più o meno un terzo della popolazione, a “pari merito” con cattolici e musulmani) ma comunque ancora molto sentita da tutti: i cristiani per esempio non negano la sua efficacia, ma la ritengono semplicemente non ortodossa; come molte persone istruite, perfino i medici ammettono che le malattie sono provocate da virus, batteri e quant’altro ma talvolta si chiedono perché quell’agente patogeno ha colpito proprio te e non un altro (malocchio?); la mattina inoltre si vedono spesso agli incroci delle strade (considerati punti in cui si concentrano le energie magiche) pentole o cocchi bruciati (segno che nella notte qualcuno ha celebrato un sacrificio); una volta per le vie di Bassam ho incontrato una signora tutta ricoperta di polvere bianca e la mia maitresse mi ha spiegato che si tratta di una feticheuse (cioè che fa feticci, idoli); addirittura Leo e altri rappresentanti di Ong che si occupano di bambini di strada, mi raccontavano che sotto elezioni (che qui vengono fissate un paio di volte l’anno, anche se poi puntualmente rimandate, così da 8 anni) i ragazzini vengono a cercare protezione perché sanno che rischiano di sparire (i sacrifici umani sembra che portino molti voti… altro che la mafia!).
Ma che c’entra tutto questo con Nina? C’entra che lei è un’animalista convinta, gattara e “madre” (non avendo potuto avere figli) di quattro cani (uno addirittura ancora dei tempi milanesi). Cani che una notte sono spariti. Inutili le ricerche, gli annunci, le promesse di una ricompensa anche solo per avere informazioni. Dei poveretti non sono state trovate neppure le carcasse. Indaga che t’indaga, Nina scopre che alla sua destra vive una tribù che qualche tempo fa era stata cacciata dal villaggio in cui stava perché accusata di aver fatto sparire un bebè; e alla sua sinistra c’è la casa di un belga coniugato ivoriano, finito in galera… e scopre che i sacrifici di cani (fedeli e muti) sono i più indicati a far uscire gli amici di prigione.
Sì, è vero: è una storia terribile. Soprattutto alla luce del fatto che a noi è sparito uno dei due gattini che avevamo appena adottato. Ma l’ho raccontata perché in fondo anche questa è l’Africa.

martedì 15 dicembre 2009

Capire l'Africa - Lezione I

Non ho certo la pretesa, dopo appena un mese e mezzo, di aver veramente “capito l’Africa”. Sia perché il continente è sterminato, sia perché anche da questo angolino in cui sono io, intravedo un mondo completamente “altro”, che forse mai riuscirò veramente a capire fino in fondo.
Ma mi permetto di fare alcune, prime considerazioni. Innanzitutto la passività delle persone che mi circondano: vivono in condizioni che “noi” non accetteremmo mai, hanno una classe politica di briganti e irresponsabili; ma nonostante ciò osannano i rappresentanti di questo potere inutile per non dire parassitario, in nome di un rispetto dell’autorità tipico di una società fortemente gerarchizzata.
La gerarchia qui è il nomos di qualunque rapporto: tra amici, c’è il petit che deve subire le regole che detta quello più anziano, in famiglia c’è il padre (quando c’è e comunque anche quando è gonfio di kutuku –il che pare sia abbastanza diffuso) o il parente più ricco (che deve ostentare il proprio ceto, deve –per esempio- essere grasso, per far vedere che ha la possibilità di mangiare quanto vuole ed è in salute); sul lavoro c’è il capo che può essere un imbecille (e generalmente più si sale nella scala, meno lavora), ma i suoi ordini non possono essere messi in discussione, soprattutto se è un bianco (odiati perché colonizzatori, ma trattati pur sempre e comunque con una deferenza imbarazzante –salvo poi inseguirli coi tizzoni ardenti, quando scoppia qualche tumulto).
Mi viene in mente a tal proposito un aneddoto raccontatomi da Rina, energica signora italiana trapiantatasi qua. C’era un cesto di mele e lei ha detto a due suoi braccianti: “Dividete in due e prendetevele”, e loro le hanno tagliate ognuna a metà e se le sono poi divise. Probabilmente c’è stato un problema di incomprensione linguistica, ma presumo che anche a loro sarà sembrata balzana l’idea di dover tagliare a metà le mele per potersele dividere… Allora perché non ne hanno semplicemente chiesto il motivo? Perché un ordine non si discute, si esegue.
Ad un Europeo verrebbe da dire che sono rimasti al Medioevo, con una mentalità da sudditi anziché da cittadini, dove non ci sono diritti ma concessioni del sovrano; che qui sono mancati l’Illuminismo e la Rivoluzione francese. Che, sì: noi al loro posto saremmo già insorti… A un italiano viene in mente Berlusconi. A cui si concede tutto: di farsi le ragazzine, di candidarle e nominarle ministro (roba da ancien regime), di plasmare l’opinione pubblica a suo piacimento grazie al suo strapotere mediatico, di essere un ladro e corruttore e di abusare della sua posizione per sottrarsi alla legge e per favorire le sue aziende, di avere rapporti con la mafia, di aver fatto parte di una loggia massonica eversiva (di cui sembra perseguire ancora gli obiettivi), di avere scarsa familiarità con le regole democratiche di base (che la Costituzione –per esempio- non è un intralcio ma una garanzia, che il potere legislativo spetta al Parlamento e non al Governo, che esiste una divisione tra l’esecutivo e il giudiziario, che il solo aver vinto le elezioni non permette di “comandare”, che il buon governo non demonizza il dissenso, che un Paese non è un’azienda –i cittadini non sono suoi dipendenti). Gli si concede tutto questo e anzi lo si ama, perché è simpatico, racconta barzellette sconce, dà le case ai terremotati (come se le avesse pagate di tasca sua, come se non fossero cose “dovute” – ma poi: i terremotati ce l’hanno veramente una casa? Mah!). Al massimo gli si tira una statuetta del Duomo sul naso!
Mi spiace essere finita a parlare dell’Italia, ma come si può vedere le distanze tra “noi” e “loro” non sono poi così ampie (qui ho almeno l’amara consolazione che non è il mio Paese e che viene detto del Terzo Mondo).
E come le distanze si possono ridurre, allo stesso modo le cose possono essere viste sotto diverse angolazioni e diventare pregi o difetti, a seconda. È proprio questa “passività” per esempio, che forse permette alla gente di qui di essere “serena” (o così a me sembra): una delle cose che più mi ha sconcertata in questi primi giorni è infatti che, per quanto abbiano fame, siano poveri o vivano nella cacca, sorridono. E questa è una bella cosa (quando appunto non diventa “oblomovismo”).
A dare un senso a questa mia osservazione mi è venuto in aiuto un libro che ho appena letto: “I coccodrilli di Yamoussoukro” di V.S.Naipaul (premio Nobel indiano per la letteratura). L’autore vi fa una distinzione tra “mondo di giorno” e “mondo di notte”, due piani della realtà che rendono gli africani apparentemente indifferenti: “Oggi va bene, domani magari no. Così è la vita, nel mondo di sopra; l’importante è che il mondo interiore sia integro”.
Al mondo notturno attengono la magia e i sacrifici, ancora molto presenti nella cultura del posto.

mercoledì 2 dicembre 2009

Mamma a tempo pieno

Mia figlia è un tipo mattiniero e la prima parola che pronuncia, subito dopo aver aperto gli occhi, è: “Giochiamo?”. È anche molto chiacchierona e quando è sotto stress (come in questa fase di ambientamento) tende a parlare ancor di più (tipo raffica di mitra) e a chiederti “giochiamo?” anche mentre stiamo già giocando. Mi sembra un ottimo modo di gestire lo stress… per lei. Per me è un incubo!
Si comincia appena alzati con “il gioco di fantasia” (uno dei suoi preferiti, bisogna farlo almeno una volta al giorno altrimenti le parte una crisi isterica, io sono riuscita solo a limitarne gli orari: non prima di aver preso il caffè, fatto la cacca, fumato la sigaretta; non dopo cena; non per più di un’ora). Il gioco funziona che lei mi chiede: “Mamma posso andare a fare una vacanza da…” e qui si aprono illimitate possibilità a seconda del suo personaggio preferito del momento (Che Guevara, Gesù, Chico Mendes, Emiliano Zapata, Indiana Jones, Piedone, Spidermen o qualunque altro supereroe, Topolino o qualunque altro personaggio Disney, Luke Skywalker, Frodo, James Bond, Pimpa e Ape Maya sono tra i più frequentati).
Qualunque mezzo prenda, devo fare il bigliettaio e scambiare qualche formula di rito a seconda della situazione. Dopo di che lei è sempre Marysol che va a trovare qualcuno che non la conosce, ma che lei conosce perché ha visto il film/le hanno raccontato la storia/ha il libro, ecc., mentre io devo interpretare tutti i personaggi che incontra (buoni, cattivi, maschi, femmine, animali, quelli delle storie e quelli che si inventa lei via via). Una cosa da crisi d’identità dopo dieci minuti. Anche perché tutto questo avviene mentre ci si prepara con la consueta fretta, per andare a scuola e lei non ammette distrazioni.
Il plot prevede di solito che lei li aiuterà a risolvere tutti i loro problemi, grazie al fatto che conosce la storia e grazie alle cinque spade magiche che le ha regalato il suo amico Flash Gordon. Queste spade fanno di tutto: non solo più le usi e più diventi forte e veloce (e ormai lei è già fortissima e velocissima), ma danno anche poteri magici, come l’invisibilità e la capacità di resuscitare i morti (qui è stato difficile innanzitutto convincerla che Gesù doveva proprio morire sulla croce e poi che se resuscitava non era per le spade magiche).
Risolte le faccende lei invita a casa i suoi nuovi amici, gli presenta tutti i suoi bambini (bambole e pupazzi) e dà una festa in loro onore.
Le feste con bambole e pupazzi sono un altro tasto dolente. Il lunedì (tutti i lunedì) è il compleanno di Lilly (la sua coccinella di peluche); il mercoledì, quello di Marta (una bambola che, se le schiacci la pancia, ride, piange, chiama la mamma o chiede la pappa); il sabato quello di Dado. Dado merita una presentazione più approfondita: è un patetico bambolotto nero, che il nonno le aveva regalato quando ancora l’Africa era lontana dai nostri progetti, forse il primo bambolotto che le hanno regalato. Da allora lei non se ne è più separata, nonostante sia alquanto orribile: occhi sbarrati e vitrei, bocca spalancata in una smorfia che può ricordare l’Urlo di Munch. In effetti, siccome lei gliene combina di tutti i colori, certe volte ho l’impressione che quando gliel’hanno regalato sorridesse, e che ora abbia semplicemente un’espressione di terrore. Comunque è ormai uno di famiglia, che con noi ha percorso migliaia di chilometri, dal Guatemala, alla Sicilia, ai Paesi Baschi, coinvolto in mille avventure, dalle quali ha riportato diversi traumi (perdita di arti poi ricuciti più volte, il che gli conferisce una sagoma ancora più floscia ed informe).
Le loro feste di compleanno prevedono che ci si debba vestire eleganti, agghindandosi (e agghindando tutti i pupazzi) di varia bigiotteria, poi si consuma il banchetto, solitamente imbandito di riso con piselli, polpette, patatine fritte e torta al cioccolato (i suoi piatti preferiti, rigorosamente disegnati su un foglio e ritagliati); quindi si danno i regali (gli altri giocattoli di Mary); si suonano tutti gli strumenti musicali, si balla, si canta, si fanno i giochi. Insomma la stessa fatica e durata di una vera festa di compleanno.
Quando non fanno festa, i suoi pupazzi vanno a scuola e le maestre siamo io (la zia), ma soprattutto lei (la loro mamma). In questi casi viene replicata la giornata tipo dell’asilo di Milano, con gli stessi giochi, le canzoni, le attività, le sgridate ai più indisciplinati. Di solito Dado è dei peggiori, vuole mangiare solo dolci, il resto lo sputa tutto, Mary si arrabbia e lo riprende esattamente come facciamo noi con lei. Ma ora che siamo in Africa, terra d’origine di Dado, lui è cambiato completamente ed è diventato un angelo. Più che altro ora bisogna insegnare l’italiano a lui e il francese ai suoi fratelli. Quindi la maestra (Mary) ha scritto dei tabelloni con numeri e lettere (a modo suo) e loro (cioè io) li devono leggere e ripetere nelle due lingue. Esattamente come fa lei nella nuova scuola, ma solo in francese.
Io naturalmente non posso esimermi dal partecipare attivamente a tutto questo.