sabato 28 novembre 2009

Il re di Monduku

Monduku è un piccolo villaggio di pescatori appena fuori Grand Bassam. Qui la Communauté Abel vorrebbe iniziare dei corsi di alfabetizzazione, ma prima bisogna chiedere il permesso al capo villaggio. Siamo allora partiti un giorno per l’incontro avec “le Roi”. Il villaggio tutto sommato è carino: la prima cosa che si incontra entrandovi è l’immancabile campo da calcio, sulla spiaggia. I ragazzini corrono sulla sabbia come se fossero sull’erba del Meazza… ti credo che crescendo acquistano fisici da divinità classiche! I nostri ragazzi sono abituati al campo spelacchiato (ma apprezzatissimo dai professionisti del Bassam, che evidentemente in zona non trovano di meglio) del Centre Abel (su cui peraltro giocano comunque a piedi nudi o coi sandaletti di gomma); il che li metterà in difficoltà al momento della sfida di rito in conclusione degli accordi. (Chissà se anche dopo gli accordi di pace di Ouagadogu le due fazioni in lotta nella Costa d’Avorio si sono sfidate a calcio).
Dopo il campo, la spiaggia prosegue presentando, proprio nella parte davanti al villaggio vero e proprio, una serie di buchi su cui ronzano nugoli di mosche: le latrine. Tra una latrina e l’altra le piroghe di un acceso color azzurro riposano, vicino alle reti stese ad asciugare. Tra la spiaggia e le case, un boschetto di palme offre l’ombra alle donne intente a “piler le foutou”. Il foutou è una polentina collosissima ottenuta pestando manioca e banane, una fatica compensata da un piatto delizioso (da mangiarsi rigorosamente con le mani) condito con un sughetto molto saporito.
Le case sono per lo più capanne di foglie di palma o legno (che non mi spiego come possano resistere ai violenti nubifragi che ogni tanto esplodono su questi cieli). Le strade però sono pulite e ben tenute: nei villaggi – mi spiegano - ognuno bada allo spazio intorno alla propria abitazione, il che esaurisce tutto l’abitato.
Una volta giunti nella piazza del villaggio, ci mettiamo in attesa. Sia perché attendere fa parte della tradizione africana, sia perché il capo villaggio è impegnato a dirimere le questioni tra gli abitanti. Questo è il suo ruolo. Spesso discende dalle famiglie degli antichi re di questi popoli. Raramente è eletto (d’altra parte ho scoperto che molti dignitari locali, come per esempio il sindaco di Bassam, - sicuramente eletti – provengono dalle famiglie regnanti prima dell’arrivo dei francesi, come se il passaggio dei colonizzatori non avesse modificato nulla della struttura sociale preesistente). E il suo compito è quindi quello di amministrare la giustizia: quando ci sono dei contrasti tra le persone, queste si rivolgono prima allo “chef” (che quindi non è un cuoco); poi, se non sono soddisfatti della sua decisione, ricorrono alle istituzioni statali.
Il re è un signore di mezza età vestito con una tunica bianca e come segno distintivo porta appoggiato sul braccio un drappo di pagne (il tessuto tipico) che gli scende da una spalla. Di qualunque cosa si debba discutere con lui, bisogna rispettare un rigido protocollo. Innanzitutto gli interessati non si parlano mai direttamente: non sarà Leo a chiedere di poter fare i corsi di alfabetizzazione, ma qualcuno in sua vece. E così pure il capo risponderà al suo vice che riferirà le stesse parole appena ascoltate da tutti. Ma prima ancora di arrivare a questo punto, il capo chiederà “Quelles nouvelles?” (che notizie portate?). E qui bisogna inventarsi un po’ di cazzate da dire, tipo: tutto bene, il lavoro va bene, il viaggio è andato bene, ecc. E dopo aver menato il can per l’aia per un po’, dire: “Siamo venuti qui per parlare di…”. Solo a quel punto ha inizio il vero e proprio abboccamento.
Terminate le trattative, ci sarà offerto un gustoso pranzo a base di foutou e koutoukou, un distillato di linfa di palma molto simile per gradazione alla nostra grappa. Ovviamente non si può rifiutare niente, ma se si hanno dei dubbi (più che leciti) sulle condizioni igieniche per esempio dei bicchieri, gli antenati ci vengono in soccorso. È infatti a loro che va offerto il primo sorso di koutoukou: in questo modo si fa uno sciacquino del bicchiere con un liquido a 60° e poi lo si versa per terra. Meglio di niente, prima di bere un bicchiere di acqua insolitamente marroncina.
Mangiamo, fissati dai nostri ospiti che secondo il galateo non possono toccare cibo finché noi non abbiamo finito il nostro pasto. Dopo di loro toccherà infine ai bambini, ultimi nella “catena alimentare”. Imbarazzo a parte ci gustiamo con soddisfazione il pranzo.
Prima di ripartire bisogna “demander la route”, cioè chiedere il permesso di andarcene. A quel punto si ritiene conclusa la visita ufficiale.
Per la cronaca, la partita poi c’è effettivamente stata e come previsto è stata una debacle per i ragazzi del Centre Abel, battuti quattro a zero.
Per fortuna si sono potuti rifare col match di ritorno, giocato sul campo casalingo e arbitrato da Akouesson, l’uomo in più della nostra squadra.

venerdì 20 novembre 2009

Da grande non farò l’imbianchino

Il Centre Abel è una tenuta di 20 ettari di terreno appena fuori Grand Bassam. Ci si arriva dopo aver percorso una sterrata di un paio di chilometri. Oltrepassato il cancello, a sinistra si trova l’auberge (per chi volesse fare turismo responsabile!) e un campo da calcio. Qui viene in ritiro anche l’equipe de footbal del Bassam, che –dicono- da quando ha preso questa buona abitudine, ha recuperato nell’agguerritissimo campionato ivoriano, strappando la salvezza.
Sulla destra, invece, c’è la direzione. Scrutando tra le palme, poi, si intravedono, in senso antiorario, il dormitorio dei giovani accolti nel Centro (ragazzi di strada, orfani o con alle spalle situazioni familiari tremende, che qui trovano una casa, una scuola, un avviamento al lavoro, una speranza); il refettorio e le cucine; la falegnameria; gli allevamenti (di polli, conigli, maiali e formiche carnivore) e dietro di questi, campi a perdita d’occhio.
A chiudere il cerchio, proprio sotto un mango gigantesco, c’è la nostra casetta: è una palazzina di un piano, fatta a ferro di cavallo e divisa in due appartamenti. Da una parte abitano Gino (il “mentore” di Leone) con la sua compagna ivoriana, Pina e Lina (le altre due referenti italiane del progetto). Dall’altra ci siamo noi.
La casa è grande, un po’ spartana e soprattutto avrebbe bisogno di una “rappezzata”. Così, un giorno in cui ho concluso che non sopportavo più il color bianco (sporco) delle pareti, ho deciso che lavoro inventarmi: “Farò l’imbianchina”.
Procuratami l’attrezzatura ho affrontato l’impresa seppur priva di ogni esperienza: al massimo qualche acquerello alle scuole medie. “Se ho capito la Scienza della Logica di Hegel – mi sono detta – saprò dare anche del colore su un muro”.
Spalmare con un rullo una sostanza della consistenza del vinavil (pure un po’ stantio), su una superficie rugosa, in verità non è così semplice. Dopo sei ore avevo perso quattro chili (meglio delle lezioni di francese!) e dipinto un metro quadrato.
Dovevo pensare a un “piano B”. Le ipotesi che mi si affacciavano alla mente erano due: o lanciare direttamente il secchio di vernice sul muro e spalmarla poi con un coltello da burro come fosse una tartina, o diluire la tinta con un po’ di acqua. Ho optato per la seconda.
Intanto dovevo anche badare a Marysol, che per aiutarmi stava pennellando tutto ciò che le capitava a tiro, dalle salamandre che ci girano per casa al gatto dei vicini.
Un’altra difficoltà che mi sono trovata ad affrontare è la quantità e la tonalità del colore: terminato il primo secchio di miscela a metà di una parete, ne ho preparata dell’altra. Impossibile ripetere sempre perfettamente la stessa alchimia. Così, volendo avere una cucina arancione, mi trovo ad averne una cangiante dal pesca, al salmone, al confetto. Al fragola (avevo finito il giallo). Non contenta, ho deciso di dipingere anche gli armadietti: giallo zafferano (col salmone sono la morte sua). Alla fine, in un raptus di follia ho dipinto anche le piastrelle e il frigo.
L’effetto è un po’ “pop” ma non mi dispiace affatto. L’unico problema è che ora dovrò rifare tutti i pavimenti della casa: so che l’essenza è l’essere in sé, ma non ho pensato a mettere dei giornali per terra per non macchiare dappertutto… ora cammino su una tavolozza da pittore. Per non parlare di mia figlia: ha delle mesh giallo zafferano molto punk che non verranno mai più via.
Il che mi ha fatto concludere che da grande non farò l’imbianchino.

mercoledì 18 novembre 2009

Prime impressioni

Vivere qui non sembra più difficile che a Milano (almeno per noi bianchi). Ci sono difficoltà diverse: lì si lotta contro il traffico, qui contro gli insetti; lì si cerca di sbarcare il lunario in qualche modo, qui bisogna capire cosa si può cucinare con le cose sconosciute che trovo, cercando tra le mosche, al mercato (che per me, abituata a surgelati e microonde, non è cosa da poco).
Rispetto alla giungla d’asfalto inoltre, ci sono dei vantaggi: le persone sono sempre molto gentili e appena si ha un po’ di tempo libero si può fare una scappata al mare. E che mare! Oceano: basta stare sulla riva a prendere le onde e sembra di essere all’Acquapark! La spiaggia poi sembra non finire mai (ed effettivamente è una lunga lingua di sabbia dorata contornata di palme, che si estende ininterrottamente dalla Liberia, attraversa da Ovest a Est tutta la Costa d’Avorio e continua fin oltre il Ghana). Il mio sogno è un giorno percorrerla tutta in dune buggy.
Il rovescio della medaglia come sempre c’è e banalmente è la sporcizia. Un secolo di colonizzazione francese non è bastato a costruire delle fogne o ad allestire un sistema di raccolta dei rifiuti… Eppure penso che fosse un problema anche allora! Ma questi espatriati transalpini non ne sentivano il bisogno?! Mah!
In compenso i cinquant’anni di decolonizzazione che sono seguiti, sono bastati per lasciare andare in rovina quel po’ di infrastrutture costruite: qui è tutto scassato, strade scassate, case scassate, macchine scassate.
Cosicché il paesaggio che ci si presenta in questo angolino di Africa è il seguente: strada polverosa modello gruviera, costeggiata da rogge a cielo aperto che durante le piogge debordano e allagano le vie; al di là delle rogge, file di baracche tenute insieme da brandelli di plastica, un po’ case un po’ negozi che vendono di tutto (soprattutto cose fatte in casa, come stuzzichini al tetano e così via). Dietro le baracche, si aprono campi ricoperti di immondizia (sia perché non sanno dove altro metterla, sia perché pare che serva a rendere meno cedevole il terreno – su cui poi coltivano la frutta e la verdura che compro al mercato di cui sopra).
Mi rendo conto che così l’ho presentata malissimo, ma in realtà l’insieme ha un suo fascino. Sarà per la vitalità e l’umanità di questi posti e di questa gente: seppur poveri in canna mantengono sempre un’attenzione nell’accostare i colori (bellissimi e sgargianti) dei loro pochi vestiti e un’eleganza nell’acconciarsi e nell’incedere. Forse grazie anche ai loro fisici longilinei, quando vedi sfilare queste donne che portano sulla testa enormi cesti di frutta esotica, hanno la stessa disinvoltura con cui una lady inglese sfoggia un orribile cappello a un concorso di equitazione. A vederle mi vengono in mente certe illustrazioni di Manara o Pratt. E poi sorridono sempre. Forse ho ancora lo sguardo velato dal romanticismo della scoperta, ma mi sembrano felici così: magari affamati, ma contenti di essere vivi, di non essere ancora morti per una qualche malattia da noi scomparsa da decenni. Un po’ fatalisti anche e quindi pare che dicano “se è così che deve andare…” perché sbattersi per creare sviluppo. E di fatti non ci provano neanche: qui gli unici con spirito imprenditoriale sono i libanesi (che probabilmente hanno almeno l’idea di cosa significhi la parola sviluppo). Come ci siano finiti i libanesi qui non lo so, ma se vedi una bella casa o un ristorante pulito, sicuramente è loro.
Per quanto sorridenti e gentili, ancora non capisco una parola di quello che dicono (mi consola il fatto che anche i francesi facciano fatica). Così ho iniziato a prendere un po’ di lezioni: una vera tortura cinese! La casa della mia maitresse (non fatevi strane idee: vuol dire maestra!) è senza ventilatore (il lato positivo è che se non imparo il francese, almeno dimagrisco), buia, e nemmeno lei è particolarmente brillante: non riesco a farle capire che è inutile che lei mi ricopi alla lavagna e mi faccia a sua volta ricopiare sul quaderno tutto ciò che lei ha scritto sul suo libro, soprattutto se si tratta della spiegazione di cosa è una frase negativa e che cosa sono il soggetto o il futuro, il passato, il presente (e non si tratta di filosofia). Più utile sarebbe che lei mi dicesse le desinenza dei verbi al futuro ecc., magari in modo ragionato e non mnemonico. Insomma di questa noia mortale me ne sparo due ore e mezzo, quattro volte a settimana! Mentre la bimba va a scuola… Lei è una grande: non si fa problemi di sorta, sta in mezzo a sconosciuti incomprensibili e gioca con loro, forte della comunicazione non verbale che impera tra i bambini e dell’incredibile attrattiva che esercitano sui suoi compagni dei capelli lisci e biondi.
Io invece devo ancora trovare un po’ la mia collocazione: non so ancora bene da che parte girarmi in questo formicaio impazzito. L’immagine è quella giusta: un incessante sciamare di uomini e cose e animali, capre che attraversano le strade senza guardare (ma comunque più disciplinate dei pedoni), tassisti che guidano come capre (su delle “auto-miracolo” che non capisci come facciano ad andare conciate come sono), uomini che tirano carretti con sopra dei taxi, le eleganti signore che sfilano coi cesti in testa, bambini che corrono dietro a un pallone, vecchiette che abbrustoliscono banane sulla strada. E in mezzo a tutto questo: io, che devo inventarmi un lavoro.

domenica 15 novembre 2009

Vicini di casa


Famiglia Cochon


Capretta nata da due giorni



Gufo trovato ferito, salvato e poi sparito... Scappato? Mangiato? Dalle magnà o da chi? Chissà



Monsieur Lapin



...et ses amis



Questo è Sbavone (o più probabilmente è una lei, cmq: da quando abbiamo preso l’abitudine di portare gli avanzi ai maiali, appena sentono in lontananza la voce di Marysol, si tirano su tutti in piedi, con le zampe appoggiate ai muretti dei loro lodge, e –questo/a in particolare- iniziano a sbavare). Poi c’è Moussa Il Riproduttore (cioè il papà di tutti i maialini): una volta che siamo andate a portagli gli avanzi, ho visto da fuori il porcile che il suo cancelletto era aperto e lui gironzolava liberamente; non mi sono sentita allora di entrare e ho provato ad aggirare il muro di cinta per poter versare il bidoncino dal retro. L’erba era alta e non vedevo bene dove mettevo i piedi, finché ad un certo punto mi sono sentita sprofondare fino a entrambe le caviglie in una melma molliccia e puzzolente: cambiate un paio di consonanti e capirete che sono finita nel gabinetto della famiglia Cochon.


Tra i miei vicini di casa non ci sono solo quelli a quattro zampe (o sei o otto), ma anche quelli a due… E non parlo dei polli.
• Gino (i nomi sono di fantaia per rispetto della privacy): è qui da cinque anni, ha quindi una grande dimestichezza con questo mondo ma inizia ad avere una crisi di rigetto: i suoi giudizi sulla gente del posto sono molto sprezzanti (“Preferiscono fare fatica fisica anziché pensare”), come quelli sulla cooperazione (“L’umanitario serve solo per permettere alle grandi potenze di concludere affari vantaggiosi per loro, in cambio di qualche elemosina quando va bene). Ma nonostante questo crede ancora in quello che fa, non si è abbandonato al cinismo come molti cooperanti che ho conosciuto, che dopo un po’ di anni mettono su la loro fabbrichetta e pensano agli affari loro. O come altri espatriati, venuti qui e qui rimasti, affascinati dall’esotico e che ora, non riuscendo più a vedere ciò che li circonda con gli occhi di allora, si trovano intrappolati in una realtà scomoda.
Gino crede che essere realisti non significhi rinunciare a cercare di fare qualcosa di buono, almeno nel “micro”. E si dà un gran da fare; e lo fa bene, anche adesso che sta per ritornare in Italia con la moglie ivoriana. Ma per una nuova “avventura”, non certo per accomodarsi.
• Pina: ha l’aria molto seria, forse perché è accompagnata da un curriculum da secchiona: due lauree, un master in antropologia in Francia, ha vissuto un anno in Texas, uno a Madrid, ha avuto svariate esperienze in Africa (Burkina e Benin).
In realtà è una pazza scatenata, soprattutto quando sente un po’ di musica. Allora le scatta una specie di riflesso incondizionato e inizia una danza sfrenata.
• Lina: è l’altra italiana del gruppo, anche se tutti appena la vedono, le si rivolgono in francese chiedendole: “Tu di dove sei?” o “Come mai parli così bene italiano?”. Lei sfodera il suo dolcissimo sorriso e risponde: “Zono dde Rroma”, con un accento da far impallidire Francesco Totti. Al contrario dei grandi, i bambini, che hanno l'abitudine di correrci incontro gridando "la blanche, la blanche", fanno altrettanto con lei; che allora allunga il braccio e lo accosto ai loro per mostrare la pelle dello stesso colore. In effetti Lina è di origine eritrea, ma nata in Italia e cresciuta da genitori italiani.

martedì 10 novembre 2009

L’arrivo

Come se mi avessero gettato in faccia una salvietta imbevuta di vapore, tipo quelle che danno al ristorante cinese, per pulirsi le mani. Questa la prima sensazione appena uscita dall’aeroporto.
Siamo arrivati ad Abidjan che era buio (qui il sole cala sempre presto, verso le 18). Così mi sono esercitata nel “gioco dei cinque sensi”: tutto ciò che riesco a percepire nell’oscurità. Prima di tutto il clima (caldo-umido appunto) di questo novembre ivoriano.
Poi gli odori: salmastro, legna affumicata, vago sentore di fogna come nota di sottofondo.
Voci: una lingua più simile al bergamasco che al francese, sillabe strascicate come tiritere di venditori ambulanti, parole che finiscono in incomprensibili eeo, ôôô, ềềla. E ogni tanto in lontananza, tamburi e reggae.
Sopra tutto questo, un cielo che di notte non è come da noi (quando ci va bene di vederlo, tra grattacieli e luce artificiale), una volta punteggiata: è piuttosto un lenzuolo nero e gonfio, di sacche e di stelle.

Il gioco è più o meno proseguito l’indomani, alla luce del giorno; una strana luce: al mattino presto (qui a causa del caldo e della giornata equatoriale ci si alza alle 6) c’è un’inaspettata nebbia, che via via si asciuga. Lo spettacolo delle palme che si levano da questa coltre lattiginosa è particolarmente suggestivo. Poi verso le nove il bagliore diventa accecante. Allora puoi vedere la brousse che chiude l’orizzonte e i tantissimi animali che bazzicano intorno alla nostra casa. Oltre ai più famigliari maiali, conigli e polli dell’allevamento alle nostre spalle, appena fuori del nostro cancello ci sono piccoli aironi bianchi e uccellini talmente minuscoli da poter star posati sui fili d’erba.
Qui, diversamente da fuori, è tutto pulito e ben tenuto.
Poi ci sono ramarri di ogni genere e specie: ci sono i marguilla, lucertoloni arancioni che sembra facciano le flessioni e poi spiccano dei saltini da un angolo all’altro del cortile; ci sono gechi di varie grandezze (da quelli mini-mini, 3 cm. al massimo, fino ai loro papà, più nerboruti, sui 15 cm., passando per tutte le misure intermedie); ci sono quelli gialli, quelli verdi, quelli grigi, quelli che sembrano avere la pelle trasparente e gli occhi molto pallati nerissimi. A vederli sono molto carini, ma la cosa fastidiosa è che penetrano in casa da non so dove e mi cagano dappertutto.
Infine gli insetti, tasto dolente per me: ne ho la fobia, ma qualcosa mi dice che mi ci abituerò in fretta… o mi verrà l’esaurimento. Cominciamo dalle formiche carnivore, quelle che sembrano essere la peggiore minaccia in questo luogo. In effetti la notte qui c’è sempre un guardiano notturno e, visto gli allarmismi di guide e siti sulla Costa d’Avorio (tipo: “Non andateci se proprio non ci siete costretti, perché rischiate il furto, la rapina, il rapimento, lo stupro, la violenza etnica e quella politica”), pensavo fossero per proteggerci dai malintenzionati. E mi stupiva che circolassero armati solo di una bombola sulle spalle modello “ghostbusters”. Infatti la bombola serve per sterminare le “magnà”; mai nome fu più adatto per queste fameliche formiche. La loro è un’organizzazione guerrigliera: quando la preda è addormentata, lentamente e silenziosamente le scivolano sopra fino a ricoprirla. Solo allora, quando è completamente cosparsa dalle piccole indigene, parte il segnale d’attacco e tutte insieme iniziano a divorare il malcapitato. In questo modo sono in grado di far fuori un maiale.
Anche di formiche se ne trovano di ogni misura. In casa per esempio abbiamo delle formichine minuscole, quasi invisibili, ma che mi fanno incazzare parecchio, perché in quanto minuscole riescono ad infiltrarsi in ogni armadietto, scatoletta, confezione di biscotti o pasta, per quanto ermeticamente chiusa. Al polo opposto della scala di misura ci sono altri formiconi maledettamente volanti, grossi come api regine.
Poi ci sono mostri non meglio identificati: si va dall’insetto foglia (affascinantissimo: sembra in tutto e per tutto una foglia, verde e lanceolata, con tanto di venature, ma se guardi bene vedi da sotto spuntare sottilissime zampette), ai cervi volanti (dei coleotteri grandi come la mano di mia figlia, neri, lucentissimi; scarafoni, forse scarabei, con lunghe antenne ramificate come appunto le corna di un ungulato; anche questi molto affascinanti finché non iniziano a volare… al che –di solito- io fuggo urlando in preda al panico). Per concludere la galleria degli orrori, infine, ci sono i serpenti: si va dal cobra al mamba verde. Quest'ultimo lo si può facilmente scambiare per un rametto acerbo, lungo e sottile; quindi è possibile calpestarlo con noncuranza sul sentiero e farlo imbufalire (motivo per cui è meglio andare a passeggio con robusti stivali di gomma, anche quando ci sono 40°). Ma gli impudenti non si limitano a strisciare per i sentieri erbosi, ti arrivano bensì sulla soglia di casa. Mi dicono... Per fortuna a me non è ancora capitato e nel caso non saprei che fare. Mi sono dunque subito informata sulle procedure da seguire in caso di morso. Scordatevi ovviamente ambulanze, 118 o antidoti: qui usano una pietra nera (è in dotazione nella cassetta del pronto soccorso) con cui si deve incidere la ferita e far defluire il sangue contaminato. Poi la si sfrega sul taglio. Ho evitato di chiedere se si devono anche pronunciare delle formule magiche, perché qui la stregoneria la prendono piuttosto sul serio, e ho concluso che in caso di avvistamento la cosa migliore da fare è urlare. Insomma, ce n’è abbastanza per poter passare una prima iniziazione al selvaggio west africano.

domenica 8 novembre 2009

“Mamma, ma perché l’Africa?”

“Mamma, ma perché se tu e papà avevate un lavoro a Milano, siamo venuti in Africa?”. Come spiegare a una bimba di quattro anni quello che non so spiegare neanche a me stessa?
Mio marito lavorava per il commercio equo e solidale. Tra le altre cose, faceva la valutazione etica dei produttori. Cioè andava a visitare i contadini e gli artigiani dell’America Latina per verificare che non sfruttassero il lavoro minorile, che pagassero il giusto ai lavoratori, rispettassero le libertà sindacali, ecc. Spesso l’ho accompagnato, anche con nostra figlia. Al ritorno avevo sempre lo stesso fastidioso interrogativo che mi ronzava per la testa: “Che ci faccio io qui? Lavoro per una manica di banditi, mi faccio un mazzo tanto e porto a casa uno stipendio con cui non arrivo a fine mese! Che senso ha?”
Io ero giornalista (parola grossa per descrivere un mestiere tra l’operaio, l’impiegatizio e il redazionale) in una piccola Tv, di quelle dove tutti fanno tutto, ma soprattutto i “culi di pietra” (gergo tecnico per indicare che non si facevano mai uscite ma si scopiazzava alla meglio dalle agenzie). Ci vorrebbe un altro libro per raccontare del seminterrato da cui noi sparavamo fuori un notiziario all’ora. Si iniziava alle cinque del mattino e si finiva alle undici di sera, 365 giorni all’anno. Ovviamente su turni: era una cantina, ma non un laboratorio tessile clandestino gestito da cinesi! Anche se ci somigliava molto: senza finestre, affollatissimo, talvolta gelido (è capitato che la colonnina di mercurio inspiegabilmente scendesse sui 7 gradi); altre volte il caldo e l’umidità provocavano allucinazioni tipo essere circondati dai vietcong. Il lavoro in realtà mi piaceva e anche i colleghi e i capi pure… O almeno: quello che io ho sempre considerato il mio solo vero unico capo (-redattore, poi diventato nel frattempo vicedirettore ma che per me è sempre rimasto “il mio” capo redattore): un uomo insopportabile e adorabile allo stesso tempo; fascista fino al midollo, con lui ho fatto le peggio litigate di politica; severissimo e soggetto a esplosioni di rabbia tipo tzunami, un po’ raddolcitosi dopo essere diventato padre; molto in gamba nel suo lavoro, soprattutto nello stare dietro ai mille problemi che ci piovevano addosso quotidianamente – me lo sono spesso raffigurato come un funambolo col monociclo sul filo a giocolare con cinque palle- eppure sapeva tenere la redazione, motivandola in un modo tutto suo personale. Mi ha insegnato molto e verso di lui ho un debito di stima e gratitudine.
Ma -come detto- essendo alle dipendenze di una manica di banditi, ero precaria da otto anni, con l’unica prospettiva di rimanere a breve per strada, causa sopraggiunti limiti di rinnovo contratto.
Siccome anche Leo aveva voglia di dare una maggiore continuità ai suoi interventi tra “gli ultimi”, ecco che è saltata fuori l’occasione di partire per l’Africa: Grand Bassam, Costa d’Avorio, sul bordo Sud della “gobba” occidentale del Continente Nero. Qui c’è una comunità del Gruppo Abele, che Leo dovrà coordinare. Per due anni. “Per aiutare i poveri più da vicino”, come alla fine mia figlia è stata capace di rispondersi da sola.