martedì 31 maggio 2011

Fischia il vento

Sembra che il vento del cambiamento fischi davvero! Non potevo non dedicare un post a questa bella Italia, anche se l'ho abbandonata, ci tengo ancora, soprattutto in questi momenti. Peccato non esserci.

Ma sono contenta, anche se lontana. Contenta perché anche senza il mio voto Pisapia ce l'ha fatta (forse anzi ero io che portavo sfiga...). Contenta perché i candidati che vincono NON sono scelti dal Pd (si facciano due conti). E speriamo che lavorino bene!

domenica 29 maggio 2011

Le storie di Mary

Pigra domenica di sole. Ieri che pioveva siamo andati in piscina. Oggi invece che è una splendida giornata, stiamo in casa. I nostri ritmi ci permettono questi sprechi: ora che finalmente ho recuperato il cavo del pc, approfitto della giornata di riposo di Leo per appioppargli la bimba (si stanno “ammazzando di film” di Bud Spencer e Terence Hill) e potermi così dedicare un po' al mio blog.
Intanto fremo nell'attesa dei risultati delle "vostre" amministrative.
Due delle mie principali missioni che mi sono assegnata sono state compiute (cavo e ripristino casa... quest'ultima più o meno: ancora mancano la bombola di gas e lo scaldabagno, ma questi dipendono da cause di forza maggiore). Questa settimana sono anche riuscita (oltre a procurarmi il cavo, che è la vera svolta) a comprare le nuove zanzariere (in ferro finalmente, così il gatto non le squarcerà più arrampicandocisi sopra) e a fare una super spesa ad Abidjan (stando qua mi accorgo di quanto sono consumista dentro, per quanto abbia sempre rifuggito questa tentazione; ma da quando procurare del cibo in giro per mercato affollato, puzzolente e caldissimo e King Cash polveroso e sguarnito è diventato difficile come una giornata di lavoro o un percorso di sauna –mercato-, doccia fredda –è cominciata la stagione delle piogge-, e fitness –farsi i chilometri a piedi in giro per Bassam con mille sacchetti- ho imparato ad apprezzare i grandi centri commerciali con aria condizionata e scaffali ricolmi di cose familiari).
Ora punto a ridipingere casa e imparare a cucire: su questi due progetti sono un po' in ritardo, ma spero di recuperare la prossima settimana, visto che mi vengono continuamente nuove idee di cose da fare.
Ho trovato infatti un libro in cui si spiega come costruirsi da sé altalene e scivoli; pensavo di chiedere ai nostri falegnami di tagliarmi i pezzi e poi io li monto (come all’Ikea). Mi piacerebbe farne un po' qui per Mary e un po' al Carrefour Jeunesse (il centro d'aggregazione nella ville).
A proposito: l'altro giorno la bimba ha passato il pomeriggio là, con gli scugnizzi che ci girano. Sono una marmaglia di una ventina di bambini dagli zero ai 12 anni (altro che United Colors of Benetton) che passano la loro giornata sulla strada (benché alcuni abbiano anche casa e famiglia), scalzi e in mutande (a brandelli). Sono sporchi, bellissimi e con una forza e un'energia esplosive. La piccola se l'è cavata alla grande: ad un certo punto faceva anche a botte (per gioco) col peggiore di loro... sono una madre degenere se penso che fare a botte sia un elemento importantissimo per una corretta formazione del carattere?
Ora Caio le ha anche insegnato le strette di mano che qui vanno per la maggiore (dal batti il cinque-scivola la mano-dai il pugno, all’affera la mano-schiocca le dita-battiti il petto) quindi mi aspetto che presto prenderà il dominio della marmaglia.
Ieri sera, dopo essersi vista Alice nel Paese delle Meraviglie, si è inventata questa storia: "Il mio paese delle meraviglie è che un mattino mi sveglio presto e sento dei rumori. 'Ma che cos'è? -mi chiedo- mamma e papà ancora dormono!'. Allora scendo dal letto e mi accorgo che tutte le mie bambole e i miei pupazzi hanno preso vita, e che nella stanza ci sono anche tutti i miei amici e un sacco di altri giochi: un angolo morbido per i più piccoli, dei libri, tv e computer per i più grandi, etc. Ci sono anche delle bici, per fare un po’ di fatica e non diventare somari come Pinocchio nel Paese dei Balocchi). Poi c'è una porta che dà su un prato pieno pieno di fiori e animali, come era il mondo prima che arrivasse l'uomo. E c'è anche una finestra che dà su un cielo stellato e fuori c'è una scala a pioli che sale fino sulla luna. E la luna è a metà e allora io mi ci corico come su una cullina e mi addormento e sogno di essere nel mio lettino al Centre Abel (casa nostra qui, ndr) che devo dormire".
Lo so che per una mamma anche la cacca nel pannolino è un dono inestimabile, ma questa piccola storia mi fa pensare che mia figlia sia serena e felice e questo è impagabile!

sabato 21 maggio 2011

"L'incoronazione" di Ouattara

Oggi c’è “l’incoronazione” di Ouattara. A Yamoussoukro, la capitale, è stata organizzata la cerimonia d’investitura più sfarzosa dai tempi dell’Indipendenza. Ci saranno 24 Capi di Stato, tra cui un rappresentante di Obama e Nicolas Sarkozy (che per l’appoggio militare dato all’arresto di Gbagbo sarà il leader più acclamato dalla numerosa folla accalcata fuori dalla Fondazione Houphouet-Boigny… solito rapporto di odio-amore con la “Metropole”).
In effetti il momento è importante per tutto il Paese: un nuovo passo avanti verso l’uscita dalla crisi (sperando che ce ne siano altri a breve). Così l’evento è stato seguito su megaschermi un po’ dappertutto. Anche al Carrefour Jeunesse era stato allestito un tendone che si è ben presto colorato di arancione (il colore di Ouattara) e magliette col faccione di “Ado – la solution”, indossate soprattutto dalle donne (tante donne, tutte le venditrici del mercato)… tra le facce non troppo felici dei gbagboisti. Che però erano lì ad ascoltare i discorsi di riconciliazione, di unità, di giustizia, le tante promesse di cure gratuite, scuole efficienti, investimenti sulle infrastrutture, ripresa economica e diminuzione della disoccupazione. Anche io non riesco a smettere di sperare che prima o poi arrivi qualcuno che cambi veramente qualcosa, un Pisapia per esempio, un Vendola. Qui hanno Ouattara… vedremo: intanto il mio amico tassista (altra categoria che ha appoggiato Ado) dice che i presidenti possono cambiare ma la corruzione, in basso almeno, rimarrà sempre la stessa. I taxi men, che già prima erano taccheggiati dai poliziotti, ora che molti poliziotti sono spariti (scappati nei momenti dei saccheggi) sono le FRCI (i miliziani che hanno combattuto contro Gbagbo, o che comunque si sono procurati un’arma e una divisa) a chiedergli i balzelli.
Sono tanti ancora i giovani armati in giro. Quelli che non si danno alla rapina, se ne stanno a custodire improvvisati e inutili posti di blocco per estorcere qualche Cfa (la moneta) ai passanti.
Ce n’è uno anche fuori da casa nostra. Il tacito patto con le precedenti “Forze dell’ordine” era che avendo noi una targa diplomatica, loro non ci potevano fermare. Questo patto in parte vale ancora, ma forse non tutti i nuovi soldatini lo sanno. Così l’altra mattina mentre uscivo alle 7 per portare a scuola la bimba, sotto una pioggia battente e un carico di deplcés dietro (peraltro gbagboisti), un ragazzino in mimetica mi ha fermato per chiedermi un caffè. Io gli ho risposto molto candidamente che non sono un kiosque e lui mi ha guardato come quel tizio che un giorno ha fermato me e un mio amico in Piazza Vetra per chiederci una cartina e il mio amico gli ha risposto che non l’aveva ma se gli diceva dove doveva andare poteva spiegargli lui la strada.
Alla fine ho capito che voleva delle monetine e ho ceduto.
Cosa che invece non ha fatto Caio: era ad Abidjan per fare rifornimento di gasoil (a Bassam non ce n’è ancora) e doveva riempirne due taniche; un militare gli si è avvicinato dicendogli che lo doveva pagare 500 franchi per tanica. “Perché?” chiede Caio. “Perché per motivi di sicurezza è proibito riempire taniche” gli risponde quello. “Se è proibito (cosa per altro giusta in teoria), allora vuol dire che non si può fare, non che ti devo pagare per farla” ribatte Caio. Io e Lina, in macchina, non eravamo sicure che fosse la risposta più adeguata e gli abbiamo allungato le monete. Caio gliele ha passate senza riuscire a fare a meno di dirgli: “Ok, te le do ma questa è mafia e se te lo dice un italiano ci puoi credere!”. Il ragazzo, anziché piantargli il calcio del kalash nei coglioni, ha fatto l’errore di cercare di spiegargli il suo lavoro. A quel punto Caio ha iniziato a tirargli un pippone che non finiva più su quello che fa invece la CommAbel, che la sicurezza per il Paese viene dall’occuparsi degli enfants demunies, ecc. Alla fine il militare ci ha ridato i soldi, non si sa se per esasperazione o per convinzione. Ma un grande “Woa!” per Caio.
Ma torniamo all’incoronazione di Ouattara: Bassam era in subbuglio e anche casa nostra. Mary si è svegliata con la febbre. Scatta l’allarme malaria, la procedura ormai è consolidata: STEP 1 – impegnativa per l’esame della goccia spessa (essendo sabato la Salle de soin è chiusa e l’infermiere irrintracciabile; all’ospedale ci sono 200 persone in coda, allora andiamo in un ambulatorio privato –5000 franchi per avere la prescrizione-); STEP 2 – esame della goccia spessa (all’ospedale è finito il reagente, le altre farmacie che eseguono il test sono chiuse, quindi altra clinica privata -e altri 5000 franchi- dove in uno sgabuzzino simile, come quello dell’ospedale pubblico, al cesso di un autogrill, spezzano la siringa nel braccio della piccola, ma alla fine riescono a fare il prelievo senza colpo ferire)… tutto questo saltando da un posto all’altro della città con un caldo insopportabile e la bimba in braccio che bruciava. STEP 3 – ritiro delle analisi (nel pomeriggio, con calma; almeno essendo negative ci saltiamo il passaggio di farci prescrivere i farmaci e comprarli, un altro paio di salti in giro per la città e un paio di altre bottarelle da 5000… in effetti dopo qualche ora la bimba stava benissimo e febbre non ne ha più avuta, forse solo un colpo d’aria condizionata!).

Questa è stata la conclusione di una settimana segnata da interminabili discorsi sui grandi progetti della CommAbel: per occuparsi dei deplcés (e cercare anche di far tornare a casa quelli che possono pagandogli il viaggio, benché le grandi agenzie forse non abbiano tutto questo interesse, ora che gli sono arrivati i finanziamenti –tre mesi dopo l’insorgere dell’emergenza), per rinsaldare la coesione sociale, per riprendere l’attività a pieno regime, e soprattutto per destreggiarsi nei complicati meandri dei bandi di finanziamento.
Tutti discorsi molto coinvolgenti, stimolanti e appassionanti. Ma siccome io sono un po’ deplacée a casa mia (non abbiamo né gas –che non si trova-, né scaldabagno –non ci sono soldi per cambiarlo… l’ho detto: una costante, anche a Milano stessa cosa-, né lavatrice e acqua potabile –da sempre nella casa di Caio e Lina) passiamo la maggior parte del tempo con la Direzione Generale perennemente riunita e quindi se ne parla a colazione, pranzo e cena e tra una pausa e l’altra.
Per non rischiare l’overdose cerco di concentrarmi sui miei di progetti. Che si accumulano.
Per esempio, la settimana era iniziata con i postumi del week end ad Assouendè, che mi ha ispirato l’idea della “Casa del piccolo cooperante” (un finto Grande Fratello, in cui dare assaggi della nostra “eccentrica” quotidianità).
Sì, lo so: prometto, prometto poi concludo poco. Ma nessuno di voi (perché c’è qualcuno dall’altra parte dello schermo, vero?!) mi sembra così impaziente.
Intanto, vi lascio con un nuovo proverbio africano: “Il problema non cerca l’uomo, è l’uomo che cerca il problema”.

sabato 14 maggio 2011

Aqwaba - Ben tornati

Potrei raccontare di come è stato dolce ritrovare questa luce, questo cielo che credevo di aver perduto per sempre.
O dell’impressione che mi ha fatto vedere case e strade ancor più distrutte di prima, i supermercati e le banche con ancora i segni dei saccheggi.
E nonostante tutto la voglia di ricominciare, la gente intenta a ricostruire i negozi devastati, i sorrisi sui volti delle persone. Anche dei nostri 200 nuovi vicini di casa (dei deplacès di Abobo e Yopougon, che hanno perso tutto -casa, lavoro, forse anche dei familiari-, e che da tre mesi venivano rimbalzati da una parte all’altra, fino ad arrivare ad accamparsi nel nostro Centre).

Ma la poesia finisce qui.
Appena arrivati: Caio ha perso la valigia; io mi sono accorta di aver dimenticato il cavo del computer in Italia (porco il mondo, ho un pessimo rapporto con la tecnologia, soprattutto coi cavi); uno dei nostri deplacé è morto (tra l’altro nel modo più stupido per chi è scampato a chissà quali orrori e poi, giocando a calcio si appende alla traversa della porta per dondolarsi e se la tira addosso... era poco più di un ragazzo, il medico responsabile del loro gruppo ha detto che non era niente di grave. Ma si sbagliava.); e un fulmine si è abbattuto sopra casa nostra (un botto che sembrava una bomba, il contatore di Caio e Lina è esploso, le nostre lampadine sono schizzate fuori dai lampadari e l’impianto di tutto il Centre si è bruciato... siamo rimasti senza corrente per quasi una settimana. Quando poi è ritornata non è tornata ovunque, così –per esempio- stiamo ospitando in casa nostra le incubatrici dei pulcini –ancora nelle uova- e al mattino ci svegliamo coi nuovi nati in salotto... Mary è in sollucchero!).

Intanto ci arrivano i racconti di quello che è stata la guerra nel resto del Paese (a Bassam, a parte i saccheggi in banche e super, non è successo niente): una delle cuoche della Communauté ha perso 25 (venticinque) membri della sua famiglia in un giorno solo. Erano di Man una città nel Nord, i miliziani lungo la strada bruciavano tutto ciò che incontravano (sia quelli di Gbagbo in rotta, sia quelli di Ouattara che li inseguivano). È successo anche nell'Ovest a Duekoué, ed è successo anche ad Abidjan, a Yopougon (l'ultimo quartiere ad essere messo in sicurezza... più o meno, ancora si sparacchia), dove hanno trovato delle fosse comuni. L’Onu parla di 3000 morti nel conflitto, ma forse è un bilancio ottimistico.

E il tran tran quotidiano ricomincia.
Marysol è felicissima di aver ritrovato gli amici, ricominciato la scuola, la piscina, le lezioni di piano. Le hanno dato la pagella del 1° trimestre, è piena di A e B, tranne una C... in religione!
Leo è strapreso dal lavoro e sono un po' gelosa dell'affiatamento con Lina e Caio, da cui mi sento un po' esclusa perché loro oltre a condividere tanti importani impegni, hanno condiviso anche i tre mesi difficili della crisi. Ma penso che recupererò in fretta il mio posto in mezzo a loro. E comunque sono felicissima anch'io di essere di nuovo qui.
Mi sono fatta un programma per le prossime settimane: entro questa dovrei riuscire a riprendere il controllo della casa che dopo 5 mesi d'assenza era invasa dai vermi come un pezzo di carne andata a male (e non è una metafora).
Poi entro la prossima settimana voglio risolvere il problema del pc e procurarmi l'attrezzatura per ridipingere le camere, ho idee fantastiche in proposito.
Ho idee fantastiche anche di modelli di vestiti da fare con le stoffe di qua, quindi inizierò a fare un corso di taglio e cucito. Intanto la mia linea di moda la potrei iniziare facendo stampare sulle magliette dei proverbi africani. Per esempio ce n'è uno che dice: "Per quanto ingrassino le chiappe, non potranno mai soffocare il buco del culo". Voi la comprereste una maglietta così?

Tra le altre cose, mi riprometto di fare a breve un focus anche sulla situazione dei deplacés (sono un milione in tutto il Paese). Per il momento mi limito ad accennarvi alcune storielle amene come quella tubercolotico (che poi si è scoperto che non era affatto tubercolotico –perché l’abbiamo portato noi dal dottore, cosa che invece non ha fatto l’Ong che li segue), costretto a vivere isolato sotto l'apatam (un gazebo); o quella della ragazza traumatizzata dalla guerra (posseduta dagli spiriti dicono qui) e che non può più occuparsi dei suoi tre figli, che vengono curati a turno dagli altri deplaces.
L’Unhcr ci voleva anche rifilare altri 300 rifugiati (questa volta liberiani, fuggiti in Costa d'Avorio dalla guerra nel loro Paese poco prima che gli Ivoriani fuggissero in Liberia dalla guerra qui). Ora: vivendo io nel mondo di Biancaneve e dei sette nani, pensavo che una delle ragioni dell’esistenza di certe agenzie Onu, fosse quella di gestire le emergenze e che in casi come questi arrivassero completamente attrezzati di tende, w.c. chimici, cucine da campo e camion di alimenti.
Non è così: innanzitutto spesso si appoggiano a Ong locali, così succede per esempio che, benché il Pam (Programma Alimentare Mondiale) garantisca 3 pasti al giorno, ai nostri deplacés arrivi solo un po’ di riso ogni tanto (e di fatti i nostri allevamenti sono decimati dai furti). Sono maligna a pensare che nella catena di distribuzione, qualcosa finisca sul mercato nero, visto che l’approvvigionamento dei generi di prima necessità è ancora difficoltoso? Storie da anni ‘40.
In secondo luogo, queste istituzioni sono spesso intasate di burocrazia, per cui nei momenti di crisi fanno riunioni di giornate intere per decidere come gestire l’emergenza, se appoggiarsi a piccole Ong locali o grandi ma di fuori, etc., e così mentre quelli discutono su come gestire l’emergenza, l’emergenza non la gestisce nessuno per settimane. Anche chi presenta progetti deve sempre impazzire per fare carrettate di preventivi (che poi voglio dire: nei villaggi sperduti non è che trovi così tanti idraulici che ti fanno preventivi per le lattrine!). Poi se il progetto non ha alcun impatto sull’esistente, non importa: basta che la rendicontazione rispetti i parametri.
Nel nostro caso, quelli che ci volevano rifilare i 300 liberiani non avevano mai sentito parlare di w.c. chimici e pretendevano che cagassero tutti e 500 (includendo i 200 sfollati che già abbiamo) nei bagni pensati per una cinquantina di persone (quelli dell’ex internato del Centre).
Noi oltretutto quel giorno, oltre a essere senza corrente a causa del fulmine, eravamo anche senz’acqua. Così, riusciti a scampare all’invasione di rifugiati, ci siamo rifugiati a nostra volta ad Assouendé (un villaggio sul mare, poco distanti da qui) per un week end di sesso, droga (Pastis) e rock&roll (o meglio: reggae).

sabato 7 maggio 2011

Nòstoi

Νòστοι: poemi epici dei ritorni, inteso come ritorno dal fronte dei veterani della guerra di Troia, di cui l’Odissea è il più celebre esempio.


Questa nozione risalente al ginnasio è rimasta impigliata in un mio neurone, sepolto sotto milioni di altri (bruciati), fino a riemergere prepotentemente in questo periodo.
Dunque il 21 gennaio Leo è tornato in Costa d’Avorio, mentre io sono rimasta a Milano a destreggiarmi tra un melanoma, la figlia abulica per la troppo prolungata assenza del papà e della scuola, un padre (il mio) in crisi finanziaria, una sorella un po’ esaurita e lo scaldabagno rotto (una delle costanti della mia vita).
E una ricerca su Via Padova per il Teatro Officina, che per realizzare uno spettacolo necessitava, oltre che della documentazione storica, anche di testimonianze di operai pugliesi degli anni '50 e di latinoamericani di oggi con storie estreme. Ho così scoperto un quartiere dalla storia affascinante, da sempre meta di immigrazione e forse per questo ricco di umanità (non solo nel senso di "ricco di vari tipi umani", ma di umano sentimento). Quindi andate assolutamente a vedere lo spettacolo il 31 maggio al Piccolo Teatro Studio!

http://www.teatroofficina.it/it/

I racconti che giungevano da Bassam, intanto, riportavano dell’assurda normalità con cui la gente di lì riesce a continuare a vivere nonostante il mondo intorno stia bruciando: strade affollate, le piccole attività commerciali che se riescono a resistere a quel sole possono farlo anche con la guerra, le domeniche in spiaggia, le serate a mangiare il poulet braisè in Rue Congo.
Così, appena ho saputo, con grande delusione della suocera, che il mio melanoma per ora non destava grandi preoccupazioni, mi sono affrettata a prenotare il volo di ritorno. Avevo trovato un’offerta davvero eccezionale..., pure troppo: infatti si faceva scalo a Tripoli, dove il giorno dopo che ho acquistato il biglietto, Gheddafi stava bombardando i manifestanti.
Nel frattempo le banche in Costa d’Avorio avevano chiuso: non c’erano più soldi in giro! Mi aspettavo una reazione tipo Argentina 2001, con assalti agli sportelli, la gente inferocita, etc. Invece: in quell’assurda normalità, la gente normalmente è povera e quindi non ha conti in banca, quindi le strade continuano ad essere affollate, le piccole attività commerciali non si sa come continuano a resistere, e comunque la domenica si va in spiaggia e quando si può si va a prendere un poulet braisè.

In quell’assurda normalità, è anche normale che Leo vada in missione in Burkina per prelevare i soldi dei salari, che in Burkina scoppi una rivolta e che Leo debba quindi rimandare il suo rientro in Costa d’Avorio e quindi anche in Italia (era il piano B). Ma soprattutto è assurdamente normale che l’ambasciata italiana, mentre lui è là, lo contatti per chiedergli di procurare dei soldi anche a loro (i potenti mezzi della politica estera del nostro Paese!).
Il piano C era che il 4 aprile lui tornasse in Italia (nuovo tentativo). Intanto, fallita l’ultima (finta) mediazione dei “4 deficienti” (così un nostro amico dell’Onu definiva i quattro capi di stato scelti dall’Unione Africana per risolvere la crisi ivoriana), ad Abidjan si era cominciato a sparare: sulle donne che marciavano chiedendo che Gbagbo se ne andasse, sul mercato (così tanto per), nel quartiere di Abobo, dove il “Commando invisibile” (pro-Ouattara) metteva a dura prova le milizie lealiste.


La storia di questo gruppo di guerriglieri è feroce, romantica, ricorda alcuni racconti partigiani e potrebbe essere la sceneggiatura di un film: il quartiere di Abobo (un milione d'abitanti più o meno) era schierato con Ouattara e per questo motivo sottoposto al più duro coprifuoco e alle più dure scorribande dei miliziani gbagboisti. Il capo tradizionale racconta di aver visto morire i suoi figli di 3 e 5 anni per mancanza di medicine; una suora racconta di aver passato nottate intere a estrarre pallottole dai feriti. Ma ad un certo punto un misterioso commando inizia ad organizzare agguati mordi e fuggi alle milizie per procurarsi le armi e passa poi ad una vera e propria resistenza, sostenuto dalla popolazione che all'arrivo dei miliziani dà l'allarme pestando sulle pentole. Dopo che per giorni i media si sono interrogati sull'identità e l'appartenenza dei suoi componenti, con un colpo di teatro il sergente "IB" si proclama loro capo attraverso un comunicato in cui lascia intendere di volersi proporre come "terzo incomodo" tra Ado e Gbagbo. "IB", alias Ibrahim Coulibaly (alias Denzel Washington nel nostro ipotetico film, è identico!), era capo delle forze ribelli del Nord nel 2002 insieme all'attuale primo ministro di Ouattara, Soro, cui era legato da antichi dissapori. Dopo aver combattuto strenuamente contro Gbagbo, IB si è rifiutato di deporre le armi quando le Forze Repubblicane hanno liberato il quartiere. Ed è stato ucciso.

Pochi giorni prima, nel resto del Paese era cominciata l’insurrezione: dal Nord, dall’Est e dall’Ovest, le forze repubblicane fedeli a Ouattara marciavano verso Abidjan (in alcuni casi seminando distruzione sul loro cammino). In quattro giorni avevano preso il controllo del Paese e ora erano in stallo intorno alla residenza di Gbagbo.
A Bassam non si andava più alla spiaggia e a mangiare il poulet braisè.
A Bassam c’erano centinaia di sfollati. C’era il nostro amico Yakou male in arnese e con una ferita infetta alla gamba. C’era la Communauté che cercava di occuparsi un po’ di tutti e che con l’aiuto delle autorità cercava di evitare l’insorgere di conflitti etnici. E di fatti a Bassam non c’erano scontri. Non c’era nemmeno l’Onu che chiedeva alla Communauté di andare loro in teatro di guerra a prendere gli aiuti umanitari.
E c’erano gli europei della città che si erano dati appuntamento al Wharf, il ristorante-piscina sul mare dove anche noi andavamo spesso, per discutere il da farsi. Quando uno dei camerieri del Wharf ha messo in giro la voce che “i bianchi” tramavano chissà che, questi si sono cagati sotto e hanno contattato la Licorn (il contingente francese), che li ha messi in lista per l’evacuazione.
Siccome i voli commerciali erano stati sospesi e anche il piano C era fallito, Leo suo malgrado, ha dovuto accettare di essere prelevato in elicottero (come mi rode essermi persa la scena dell’elicottero che atterra nel campo, con i soldati che sbarcano armati e si mettono in posizione e trovano allegre marmaglie di bambini che gli fanno ciao con la mano, mentre i bianconi salgono. Non ho mai fatto un viaggio in elicottero in vita mia!).
Dalla perfetta organizzazione della base francese, che in quel momento accoglieva 2000 persone e che con un volo militare mandava chi voleva partire negli aeroporti confinanti, i nostri (oltre a Leo, Lina e Caio), passavano alla spensierata “ospitalità” del nostro console a Lomè (Togo). Che vedendoli arrivare con l’idea di passare la notte in aeroporto per ripartire il giorno seguente, ha detto: “Noooooo, ci penso iooooooooo. Io ho gestito emergenze ben più gravi!”. Ha insistito, ha scelto lui un albergo e poi gliel’ha fatto pagare a loro (io sono convinta che fosse amico dell'albergatore e si sia fatto passare una stecca). Il nome del console era Marziano: un nome, una promessa (di venire da un altro pianeta!).

In ogni caso Leo è finalmente approdato nella sua Itaca, dove io ero alle prese con l'ordinaria amministrazione (che vuol dire comunque un'avventurosa lotta quotidiana anche se dal sapore meno esotico). Per esempio, avevo iniziato a fare la “scuolina” con Marysol (si passava la mattina a giocare che io ero la maestra e che lei doveva fare tanti piccoli lavoretti di taglia-incolla-colora, impara etc.): un modo per tenerla un po’ su, che ha funzionato.
E intanto pensavo. Pensavo che la cosa più pesante del trovarsi qui sola (a parte la suocera che deterrà sempre il primato nella classifica delle rotture di cazzo), non è tanto conciliare le esigenze di una figlia in crisi, con il lavoro e la mia sopravvivenza personale, quanto non avere nessuno (sano di mente) con cui condividere le mie angosce (sì, ok ci sono gli amici, a cui faccio una capa tanta, ma non è la stessa cosa di un marito). E io di angosce ne avevo tante. E allora sognavo.
Vedendo il nostro conto in banca assottigliarsi con una rapidità allarmante, i guai in cui si è cacciato mio padre e le condizioni della sua casa, vedendo un Paese (l’Italia) che economicamente e non solo va sempre più a rotoli, sognavo che tutto si risolveva e noi saremmo tornati a vivere in Costa d’Avorio per sempre (o quasi).

L’arresto di Gbagbo (grazie all’intervento francese chiesto dall’Onu) l'11aprile, è stato il primo passo verso la realizzazione del mio sogno (e di quello di molti altri ivoriani). Imperdibile l'espressione di smarrimento sul volto dell'uomo che si credeva scelto da Dio, mentre le Forze Repubblicane lo vestono, con tanto di elmetto e giubbotto antiproiettile per evitare che la folla lo linci:


http://videos.tf1.fr/jt-20h/les-images-de-l-arrestation-de-gbagbo-les-circonstances-se-precisent-6381745.html

Ora siamo qui all'areoporto di Parigi, dove abbiamo reincontrato Lina, diventata zia, e Caio, diventato single. Siamo pronti per ripartire. E, questa volta, restare!