domenica 8 novembre 2009

“Mamma, ma perché l’Africa?”

“Mamma, ma perché se tu e papà avevate un lavoro a Milano, siamo venuti in Africa?”. Come spiegare a una bimba di quattro anni quello che non so spiegare neanche a me stessa?
Mio marito lavorava per il commercio equo e solidale. Tra le altre cose, faceva la valutazione etica dei produttori. Cioè andava a visitare i contadini e gli artigiani dell’America Latina per verificare che non sfruttassero il lavoro minorile, che pagassero il giusto ai lavoratori, rispettassero le libertà sindacali, ecc. Spesso l’ho accompagnato, anche con nostra figlia. Al ritorno avevo sempre lo stesso fastidioso interrogativo che mi ronzava per la testa: “Che ci faccio io qui? Lavoro per una manica di banditi, mi faccio un mazzo tanto e porto a casa uno stipendio con cui non arrivo a fine mese! Che senso ha?”
Io ero giornalista (parola grossa per descrivere un mestiere tra l’operaio, l’impiegatizio e il redazionale) in una piccola Tv, di quelle dove tutti fanno tutto, ma soprattutto i “culi di pietra” (gergo tecnico per indicare che non si facevano mai uscite ma si scopiazzava alla meglio dalle agenzie). Ci vorrebbe un altro libro per raccontare del seminterrato da cui noi sparavamo fuori un notiziario all’ora. Si iniziava alle cinque del mattino e si finiva alle undici di sera, 365 giorni all’anno. Ovviamente su turni: era una cantina, ma non un laboratorio tessile clandestino gestito da cinesi! Anche se ci somigliava molto: senza finestre, affollatissimo, talvolta gelido (è capitato che la colonnina di mercurio inspiegabilmente scendesse sui 7 gradi); altre volte il caldo e l’umidità provocavano allucinazioni tipo essere circondati dai vietcong. Il lavoro in realtà mi piaceva e anche i colleghi e i capi pure… O almeno: quello che io ho sempre considerato il mio solo vero unico capo (-redattore, poi diventato nel frattempo vicedirettore ma che per me è sempre rimasto “il mio” capo redattore): un uomo insopportabile e adorabile allo stesso tempo; fascista fino al midollo, con lui ho fatto le peggio litigate di politica; severissimo e soggetto a esplosioni di rabbia tipo tzunami, un po’ raddolcitosi dopo essere diventato padre; molto in gamba nel suo lavoro, soprattutto nello stare dietro ai mille problemi che ci piovevano addosso quotidianamente – me lo sono spesso raffigurato come un funambolo col monociclo sul filo a giocolare con cinque palle- eppure sapeva tenere la redazione, motivandola in un modo tutto suo personale. Mi ha insegnato molto e verso di lui ho un debito di stima e gratitudine.
Ma -come detto- essendo alle dipendenze di una manica di banditi, ero precaria da otto anni, con l’unica prospettiva di rimanere a breve per strada, causa sopraggiunti limiti di rinnovo contratto.
Siccome anche Leo aveva voglia di dare una maggiore continuità ai suoi interventi tra “gli ultimi”, ecco che è saltata fuori l’occasione di partire per l’Africa: Grand Bassam, Costa d’Avorio, sul bordo Sud della “gobba” occidentale del Continente Nero. Qui c’è una comunità del Gruppo Abele, che Leo dovrà coordinare. Per due anni. “Per aiutare i poveri più da vicino”, come alla fine mia figlia è stata capace di rispondersi da sola.

Nessun commento:

Posta un commento