lunedì 19 settembre 2011

Il mio amico Yakou

Yakou potrebbe essere il prototipo del giovane ivoriano.
Innanzitutto perché, come un terzo dei suoi connazionali, viene in realtà da un altro Paese (roba che a Bossi gli farebbe partire un altro embolo). Lui viene dal Gambia, altri vengono dal Burkina, dal Mali, dal Senegal, dal Benin.
Ora tutti hanno i documenti, grazie alla campagna di identificazione che era stata fatta in vista delle ultime elezioni. Già, perché l’anagrafe non è roba semplice da queste parti: si nasce per lo più in casa (perché l’ospedale costa), e in comune ci vai se c’è, se hai voglia, se l’impiegato non ti chiede soldi… è raro che uno risponda prontamente a domande tipo: “Quanti anni hai?” o “Quando è il tuo compleanno?”. Non lo sanno, l’hanno dimenticato, non gli interessa. Mi ricordo che pochi giorni dopo che ero arrivata qui la prima volta, avevo partecipato a una manifestazione sui diritti dei bambini e mi ero stupita che uno dei più “sbandierati” fosse: “Ho diritto a essere denunciato alla nascita”. Eppure è vero: senza, non sei nessuno, non puoi votare, non puoi andare a scuola (e fare i documenti dopo un certo periodo di tempo dalla nascita, qui non è più possibile).

Ora, finalmente i vari Yakou sono stati riconosciuti cittadini della Costa d’Avorio, dopo una vita che ci vivono. Appena hanno l’occasione, ti mostrano orgogliosi la loro piéce d’identité, anche quelli che non sanno leggerla. Anche quelli che, come il mio amico, hanno mentito sulla data di nascita (per esempio per fare la patente prima dei 18 anni… lui sulla carta è nato nel ’77, ma dice di avere 26 anni… ma lo dice da tre anni… insomma: non so la sua età).
Anche avere i documenti non è cosa così scontata, da quando qualcuno si è inventato l’idea di ivoirité (una roba che non esiste se si considera che anche i confini di questa nazione, tracciati dai colonialisti, non hanno niente a che vedere con l’identità culturale delle popolazioni che ci sono cascate dentro o ne sono state tagliate fuori).
I vari Yakou ora sono ivoriani a tutti gli effetti, hanno potuto votare. E Yakou, come molti altri giovani ivoriani di origine straniera, ha fatto campagna proprio per l’uomo a cui 10 anni fa era stato impedito di candidarsi perché di madre burkinabè (ecco cos’è l’ivoirité!). Lo hanno fatto anche quelli che 10 anni prima avevano sostenuto il rivale Gbagbo. Perché all’epoca Gbagbo comunque rappresentava l’alternativa al regime militare (poi ha confiscato il potere per un decennio).
Devo dire che gli ivoriani hanno dimostrato una certa maturità politica (per essere solo la quarta volta che gli capitava di votare): nessuno si aspettava che vincesse Ado, ma se la scelta era tra chi detiene il potere da dieci anni "sans rien faire" e un vecchio capo di stato troppo anziano anche solo per farsi campagna elettorale, rimaneva solo lui, il terzo. E anche quando al secondo turno Ado aveva bisogno dei voti di Bedié, nessuno pensava che i sostenitori di quest’ultimo sarebbero davvero andati alle urne per puntare su un campione diverso.

Poi, sì, ok: c’è stata una guerra civile, ma da queste parti è fisiologica; gli ivoriani l’hanno subita (come molti altri eventi, naturali e non, per loro inscritti nell’ordine delle cose). Magari qualcuno vi ha anche preso parte, ma nessuno l’ha scelta.

Come tanti altri giovani ivoriani, anche Yakou fa molti lavori e nessuno.
Ha una bancarella di artigianato, giù al Quartier France. Ma ha anche la patente (un raro patrimonio da queste parti) e ogni tanto fa lo chauffeur: privato, di taxi, di cinq-cent-quattre (le Peugeot 504 utilizzate per il trasporto interurbano, dei forni sgangherati in cui si sta pigiati con persone e animali).
Ogni tanto lavora per una francese. Questi ha una muta di cani giganteschi che Yakou odia. Per due motivi fondamentali: 1) la spesa per il loro mantenimento è superiore alla sua paga (credo che noi europei ai loro occhi appariamo come pazzi maniaci). 2) quando lui passa davanti alla loro villa nei periodi in cui il francese non c’è, questi gli corrono incontro per giocare con lui; ma quando il padrone torna, gli ringhiano appena varca il cancello: “Mi fanno fare brutta figura col patron!”.
Poi il francese sparisce per lunghi periodi e Yakou resta senza lavoro. Allora si occupa un po’ del suo "magasin"; o può capitare che lo chiamino per guidare un taxi ogni tanto. O un 504. Ne parla con entusiasmo, anche se dice di preferire il lavoro in bottega.
Finalmente, ascoltandolo, ho capito che cosa significhino i gesti che gli autisti fanno, il braccio perennemente fuori dal finestrino: se sembra che ti stiano mandando a quel paese, in realtà stanno segnalando che vanno verso Bonouà; quando credi che ti stiano salutando è perché stanno andando a Bassam; se il gesto voi lo tradurreste con “Vieni qui!”, vuol dire che stanno andando ad Abidjan (potete immaginare le figuracce che mi sono fatta prima di scoprirlo).
Dal momento che Caio vorrebbe anche lui fare l’autista di 504 (se si stufasse di fare il direttore educativo della Communauté), Yakou ci ha spiegato anche tutti i trucchi per cercare di portare a casa la giornata. Già: perché non è che se ti affidano quel lavoro poi ti pagano. Anzi, sei tu che devi pagare l’affitto del mezzo, la benzina e ovviamente il pizzo ai poliziotti; quindi, perché ti rimanga qualcosa a fine giornata, ti devi fare un mazzo tanto.
Innanzitutto, se parti dalle stazioni, c’è tutta una mafia che stabilisce quale macchina può caricare per prima i passeggeri. Così, Yakou preferisce caricare le persone sulla Route Internationale. Ora, sulla strada c’è sempre una lunga fila di 504 e quelli davanti non si lasciano superare a meno che tu non sia diretto da un’altra parte (per essere sicuri che non gli freghi i clienti). Allora Yakou mente, agitando a caso la sua manona fuori dal finestrino e quando incontra dei potenziali clienti non gli rimane che fare il gesto del “Tu Vas Où?” (in italiano sarebbe: “Ti svito le lampadine” -?!-).
Poi si deve partire prestissimo, andare il più veloce possibile per cercare di fare più volte il viaggio avanti e indietro, e non fermarsi mai (in effetti gli incidenti sono all’ordine del giorno). Dopo di che, ti va bene se arrivi a sera con 2.000 franchi in tasca (circa 3 euro).
Ma 2.000 franchi sono buoni per mangiarci qualche giorno.
Non c’è l’ansia qui di trovare un posto fisso, una paga che permetta di mettere da parte qualcosa per i momenti meno "fortunati". Sarà che comunque lavoro non ce n’è e quindi ci si accontenta di ciò che si trova.
Ma è anche che non c’è tanto l’abitudine a guardare nel futuro: oggi mangio, domani anche, dopodomani ci penserò.

È così che Yakou, durante la crisi, si è ritrovato senza più la sua stanzetta (che non poteva più pagare), a dormire nella corte con una ferita infetta e senza mangiare. Ma “on est une grande famille” e allora è stato ospite da noi per un po’, finché non si è rimesso.
A differenza di tanti giovani ivoriani, però, Yakou non chiede quasi mai. Au contraire cerca sempre di ricambiare i nostri inviti come può: lava i piatti, porta una birra o un regalino dalla sua bottega. E tutta la sua gentilezza. È veramente la persona più premurosa che abbia mai incontrato, ti sa circondare di attenzioni, senza mai farti sentire in imbarazzo o a disagio o “soffocata”. Gli viene proprio spontaneo, come la dolcezza che riversa su Marysol… “Ma princesse adorée” la chiama (lei ovviamente è innamorata cotta).
In più mi affascina il suo modo di guardare al mondo: lui, come Marysol, crede nella magia. E così tutto ciò che appare, appartiene a due piani di realtà: il famoso “commando invisibile” di Abobo (vd. Post “Nostoi”) per esempio, era costituito da uomini che avevano il potere di rendersi veramente invisibili, oltre che di schivare i proiettili. Quando ascoltano queste teorie, Caio e Lina reagiscono da europei, si irrigidiscono, sorridono e cercano di convincerlo che non è possibile.
A me invece vengono in mente certi romanzi della letteratura latinoamericana, così profondamente pervasi di magia, come se fosse la cosa più naturale del mondo. È semplicemente un modo diverso di guardare alle cose, come passare una serata a guardare le forme delle nuvole e ognuno ci vede quello che vuole.

Ma la cosa che apprezzo di più in Yakou è la sua capacità di tradurmi il suo mondo, non solo nel senso che mi traduce le canzoni di Tiken Jah dal Dioulà. Nel mio “viaggio antropologico”, sto toccando con mano quello che ho studiato sui libri circa l’etnocentrismo e la difficoltà di guardare alla realtà umana con occhio scevro da condizionamenti culturali, con l’obiettività e la neutralità della scienza.
Un esempio: se un uomo picchia la sua donna per strada mentre i passanti si fermano a guardare, a ridere, ma non intervengono (scena a cui ci è effettivamente capitato di assistere, prima che Caio –sempre nei panni mai abbastanza apprezzati del paladino della giustizia- si intromettesse), non è semplicemente che quello è uno stronzo ubriaco e quegli altri, altrettanti stronzi pure un po’ cacasotto. Dietro questa scena c’è: 1) tutta la questione di genere (vecchia storia del maschio che porta a casa i soldi e della femmina che ricambia facendogli da elettrodomestico anche ad uso sessuale e riproduttivo); 2) il ruolo della donna (qui non c’è stato un movimento femminista; per quanto possano essere toste le donne africane –e ce ne sono alcune veramente toste- non c’è una coscienza di sé tale da far dire: “No, lui non ha il diritto di farlo e io non ho il dovere di subire”; pare anzi che l’idea sia –talora- che se non ti pesta, se non è geloso, è perché non gliene frega niente di te); 3) i rapporti familiari (“Qui gli uomini, in casa non parlano –spiega Yakou- il padre per esempio l’unico rapporto che ha con i figli è quello di forza, non gioca con loro, perché gli deve insegnare ad essere forti”); 4) talvolta, i matrimoni combinati .

Alla fine il risultato non cambia: l’uomo che picchia una donna rimane uno stronzo; ma vedrei solo quello e non tutto il resto, senza la “traduzione” di Yakou.
Spesso, la sera, quando si ferma da noi, racconta questo suo mondo. In cui i ragazzi hanno come massima aspirazione di lavorare dal lunedì al venerdì, per sperperare tutto il denaro nel bere, sabato e domenica (e la sfida qui è riuscire a non diventare alcolizzato, quando sei così fortunato da avere un lavoro). In cui le ragazze per scegliere un fidanzato guardano quante bottiglie vuote ci sono sul tavolo del bar, perché se sono tante vuol dire che è “ricco”. In cui i giovani “nouci” (scugnizzi) crescono sulla strada, a branchi, senza un adulto che li segua, dovendo sempre cercare di dimostrare di essere più forti degli altri per sopravvivere; fino al giorno in cui qualcuno di loro non si dice: “Voler à quelqu’un c’est pas un petit travaille”, e cerca un’occupazione più o meno onesta (come è capitato a lui).
È per tutte queste ragioni che non mi chiedo più che fine abbia fatto il nostro motorino, che lui avrebbe dovuto vendere per noi (questo prima dello scoppio della crisi; dopo di che non abbiamo più visto né motorino, né soldi): intanto perché ormai so che qui è così, la gente si arrangia “come può” (è così e basta: inutile disquisire se sia comunque ingiustificabile o un’inevitabile conseguenza del contesto... Yakou, in fondo, in questo video-gioco che è la sua vita, è già arrivato al terzo livello: ha evitato la banda armata e l'alcolismo); ma soprattutto perché trovo che la sua amicizia valga più di due ruote.

1 commento:

  1. Sì, beh ammiro la tua capacità di immergerti nel tessuto locale, la tua curiosità nel cercare di capire usi e costumi, e sopratutto la tua tolleranza verso uno che sostanzialmente vi ha fottuto i soldi del motorino... d'altra parte probabilmente non sevirebbe a nulla chiederglieli indietro. Siete dei babani africani! ;)

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