Ore 8.15, partenza per Sassandra. Con solo un quarto d’ora di ritardo sulla tabella di marcia, ci
avviamo alla scoperta della “Riviera di Ponente” della Costa d’Avorio.
Il viaggio è lungo: anche se sono solo 300 km circa, si tratta di attraversare tutta Abidjan (col suo solito traffico caotico) e di percorrere strade, asfaltate quando ancora c’erano i colonialisti. Ora, dopo 50 anni, due colpi di stato e un paio di guerre civili, per lunghi tratti il tragitto è sterrato o si apre improvvisamente in voragini in cui la macchina entra completamente e ne riesce piano piano. Se non si sta attenti si rischia di lasciarci il mezzo e la schiena.
Il paesaggio è comunque incantevole: lasciata la capitale economica alle spalle, il panorama inizia a farsi collinoso. Per me e Caio, abituati all’orizzon
te sinuoso del nostro Piemonte, poter rivedere qualcosa di diverso dal piatto acquitrino in cui affonda Bassam è una vera emozione. E come sul mio Appennino, la statale sale e scende tra i boschi. Unica differenza è che là ci sono castagni, querce e abeti; qui alberi della gomma, palme, manioca, fromagé (una specie di ceiba sotto cui si riuniscono i villaggi a parlamentare). In alcuni momenti sembra che la vegetazione vinca contro il bitume e la strada si restringe, divorata dagli arbusti. In altri si passa sotto gallerie di rami.
Così per 9 (nove!) ore (con pausa per il pranzo). Per fortuna dal nostro archivio magnetico abbiamo tirato fuori una colonna sonora degna di un film on the road: Bob Marley, Rolling Stones, mist
o anni ’80, cantautori italiani, canzoni di lotta e protesta (Mary va matta per “Compagni dai campi e dalle officine…”; la sa tutta!).
Arrivati, scopriamo che il nostro hotel (oltre ad essere molto dignitoso) è dotato di terrazze panoramiche sul mare e sull’estuario del fiume, offre dei gamberi che sono la fine del mondo e ospita anche una famiglia italo-ivoriana: la piccola trova subito pane per i suoi denti, due bimbi scatenati quanto lei. È bellissimo vederli scorrazzare urlandosi dietro frasi per metà in francese, per l’altra metà in bresciano.
Il giorno dopo andiamo alla ricerca della Godé Plage, una spiaggia di cui ci hanno molto ben parlato, ma molto ben nascosta. Dopo vari tentativi, indicazioni fasulle (qui nessuno mai ti dice: “Non so”, piuttosto inventano) e un’oretta di p
ista nella giungla, arriviamo al Paradiso: infinita spiaggia dorata orlata di palme, deserta e selvaggia.
Qui vive Michel Godé, un uomo che sembra un barbalbero: fisico magro e nervoso, il tronco che sembra proprio quello di uno delle piante che abbiamo appena visto sfilare nella giungla, incrostato di liane di tendini. Dice di avere 36 anni, ma forse sono 46 ben portati; ha lavorato per anni sulle navi, facendo un po’ di tutto, anche il cuoco. E poi è venuto a stabilirsi qui. Inutile chiedersi perché proprio qui: è il primo impulso di chiunque vi metta piede.
Lui ha impiantato un albergo. Noi eravamo i suoi primi e unici clienti da quando aveva aperto; in marzo, mi pare mi abbia detto (se sul dove la risposta è facile, sul quando lascia perplessi: in
piena guerra civile? Non ho avuto il coraggio di chiedergli se sapeva quello che era successo nel resto del Paese, giusto durante i primi quattro mesi dell’anno: forse in quel luogo di pace la notizia non era arrivata, non volevo turbarlo).
Siccome non ci aspettava, non aveva niente di preparato: ci ha tirato giù qualche cocco dall’albero e ce li ha dati da bere, mentre andava a pescarci qualche aragosta, uno squaletto e dei granchi che si riveleranno insuperabili.
Intanto che Michel prepara, io, Caio e Lina andiamo in esplorazione. Camminiamo lungo la spiaggia per un paio di chilometri: alla nostra sinistra l’Oceano, la corrente è violentissima, camminando sul bagnasciuga si ha la sensazione di essere tr
ascinati via dalla risacca. Sotto i nostri piedi una sabbia a grana grossa, vi si possono riconoscere ancora i frammenti di conchiglia che l’hanno generata; a tratti il colore varia, dall’oro, al rosso, al nero… sembra quasi vulcanica, ma forse è solo petrolio, arrivato fino in questo luogo incontaminato.
In alcuni punti si sono accumulati massi dalle forme bizzarre: sembrano monoliti, non sono scolpiti (se non dal vento) ma ricordano i testoni dell’Isola di Pasqua; alcuni paiono teglie per far cuocere i biscotti, con tante conchette tonde (forse la famosa goccia che scava la roccia).
Alla nostra destra, il limitare della foresta, in cui ogni tanto si aprono dei varchi, attraverso i quali si intravedono capanne, bimbi che giocano in pozze d’acqua dolce, qualcuno (anche adulto) che fa
la cacca senza troppo pudore. La solita vita di villaggio, insomma!
Sopra di noi: un cielo turchese, un sole splendente, qualche nuvola bianca e voli di rapaci che paiono aquile.
Potrebbe essere il set perfetto per un film di fantascienza: si potrebbe ambientare tanto in epoca giurassica, quanto in un futuro post-atomico. E di fatti, inerpicandoci su per una scogliera che segna la svolta bella baia, scopriamo un’altra spiaggia su cui è conficcato l’enorme relitto di una prua arrugginita, con la punta che indica lo spazio: più che naufragata, sembra piombata giù dal cielo e potrebbe essere successo anche secoli addietro: mi fa venire in mente la scena fi
nale de “Il Pianeta delle Scimmie”. Ma purtroppo (o per fortuna), di scimmie in giro non se ne vedono, quindi andiamo ad abbuffarci.
Dopo una giornata alla Robinson Crosue (appena un po’ più attrezzato) torniamo all’hotel di Sassandra (da Michel si potrebbe anche dormire, ma mancano cose banali come l’aria condizionata e il bagno).
Qui ritroviamo il cameriere che ci ha servito la cena la sera prima, e la colazione quel mattino, e che abbiamo visto alla reception e fare molte altre cose, in qualunque mansione, location e orario dell’albergo. Ha sempre un’aria pigra e scocciata (comune a molti camerieri di qui), ma non antipatica né tanto meno tonta (anch’essa molto
diffusa nella categoria). Cerco di immaginarmi la sua storia: lui, maitre d’un albergo fortunato ai tempi d’oro in cui i turisti riuscivano ancora a percorrere la strada per arrivare fin qua; ora rimasto ultimo eroico kamikaze a smazzarsi tutto il lavoro, costretto a lavorare quindici ore al giorno (per una paga che forse non è cambiata negli ultimi trent’anni) e a servire cena a una banda come la nostra. Cerco allora di immaginarmi come lui possa vederci: un gruppo eterogeneo per sesso, stirpe, età (dai 6 ai 72 anni) e casino che i suoi membri sono in grado di generare (chi salta, balla e canta mentre mangia –Mary-, chi ripensa le ordinazioni una dozzina di volta ma poi ricade sempre sui gamberi, chi litiga o
forse sta scherzando a voce un po’ troppo alta).
Si va a dormire presto e ci si sveglia ancora più presto: gli ippopotami ci aspettano!
Partiamo all’alba su una piroga a motore e risaliamo un tratto del fiume che dà il nome alla località. Dopo svariati quarti d’ora di spettacoli paesaggistici, dei pachidermici animali, manco l’ombra.
Allora accostiamo: le acque si fanno troppo basse in quel tratto. Meglio proseguire a piedi. “A piedi? Ma non era previsto!” (coro ignorato). Così, in sandali e calzoncini corti ci addentriamo nella giungla, con la guida a farci il sentiero a colpi di macete, tra serpenti e formiche carnivore (e non è un’iperbole!). Fino ad arrivare in una belli
ssima casa, su un isolotto nel bel mezzo del fiume: di listelle di legno d’un azzurro slavato, immersa nel verde e affacciata su un’ansa tranquilla e chiusa da altri isolotti. Sembra un cottage di campagna, potrebbe essere la base per un film dell’orrore se non ispirasse tutta quella tranquillità. È chiusa, era di un francese che adesso se ne è andato, dove? Quando? Boh! Però è vissuta: ci sono scarpe vicino alla porta, attrezzi usati di fresco. Chi mai, oltretutto europeo, verrebbe a rintanarsi qui? Sicuramente uno che fugge da qualcosa, forse un collaborazionista di Vichy… Mistero.
Ma: attenzione! Dalla veranda si vede qualcosa, laggiù in fondo all’ansa; qualcosa che si muove. Vi giuro che è un ippopotamo, anzi sono due… o forse tre. Insomma: provate voi a decifrare le foto con lo zoom al massimo.
Al pomeriggio torniamo da Michel, quindi all’hotel:
Alì, il cameriere scazzato, sembra stranamente di buon umore. Forse perché qualcuno osa ordinare qualcosa di diverso dai gamberi, forse il cuoco (unico sopravvissuto del passato glorioso a condividere con lui le pene dell’albergo) odia cucinare gamberi e diventa di cattivo umore quando è costretto a farli e vessa Alì (che ovviamente collabora anche con la cucina) con le sue frustrazioni. O forse è semplicemente contento che il mattino dopo ci leviamo dalle palle. Non prima di aver cambiato la gomma che qualcuno ci ha tagliato (escludo sia stato Alì, non aveva tempo né movente; indirizzo i miei sospetti più su uno schivo bianco bassamoise che alloggiava anche lui lì. Nemmeno lui aveva un movente, ma mi è sembrato molto antipatico).