domenica 12 febbraio 2012

Che peccato!

Ore 19.30: sulla spianata del Carrefour Jeunesse ci saranno almeno 300 persone, in attesa di assistere alla finale della CAN 2012.

Tutte sono convinte di vincere. Già nei giorni scorsi per radio si sentivano inni estemporanei e canzoni composte per l’occasione, tutte che celebravano la vittoria degli Elephants. Una cosa che la scaramanzia del tifoso italiano ripudierebbe, ma qui… l’ottimismo e la positività di questa gente sono tutte da imparare! Anche se ogni tanto lasciano delle gran scottature…

Noi siamo “in tribuna”: possiamo goderci la partita dal terrazzo del Restò, prospiciente allo schermo gigante; seduti, nessuno davanti, birra e pop corn. Ci siamo fatti contagiare e siamo tutti arancioni. Ridiamo delle battute tra gbagboisti e pro-Ouattara: c’è chi ricorda che quando la Costa d’Avorio vinse la sua unica Coppa d’Africa, l’anno successivo il presidente (Houphouet Boigny) morì (augurando implicitamente la stessa fine a quello attualmente in carica); gli altri rispondono invece che in quel periodo Gbagbo era in galera (sperando che presto vi ritorni definitivamente).

Poi il match comincia e la tensione sale. Nessuno ha più voglia di scherzare: si capisce subito che anche “i ragazzi” sono scesi in campo convinti che lo Zambia sia un avversario facile da battere. Anche se ha sconfitto il Ghana. Perché –sono i commenti- i migliori giocatori dei Leoni erano rimasti nei loro club europei anziché partire per la Guinea Equatoriale.

Lì, in maglia arancione, a cantare l’Abidjanese, si vedevano invece sfilare, mano sul petto, Drogba, Gervinho, Yaya Touré, Kalou.

Sono lì, ma sbagliano: il primo è il giocatore del Chelsea, che si mangia un rigore sparandolo sopra la traversa. Per lui, secondo errore dal dischetto, in questa Coupe d’Afrique.

A quel punto Mathias si alza e se ne va: “Non riesco a reggere la tensione” confessa il direttore del Carrefour, e va a rintanarsi nel suo ufficio, lì di fianco. Yakou è dal primo minuto che è pietrificato, non riesce nemmeno a bere.

Le porte restano inviolate, la partita si fa lunga, tra parate accolte come trionfi, gol mancati di fronte a 600 mani portate nei capelli, urla di incoraggiamento.

Fino alla fine. Fino ai rigori. Anche quando ormai sembra tutto perduto, dopo l’errore di Bamba… ma l’arbitro fa ripete il tiro: sì, si può ancora sperare! Si va avanti ad oltranza (saranno 18 i rigori calciati alla fine); anche il portiere dello Zambia si cimenta nel tiro. Poi Kolo Touré sbaglia, la piazza sotto di noi è col fiato sospeso; anche lo Zambia sbaglia e la terra trema sotto i piedi per l’esultanza dei tifosi. Quindi è il turno di Gervinho. Che (ancora) sbaglia. Lo zambia invece questa volta no.

Yakou, che dopo i supplementari aveva iniziato a passeggiare nervosamente con le mani giunte sotto il mento e lo sguardo che andava dallo schermo al cielo continuamente, si accascia a terra piangente. Solo Marysol riuscirà a convincerlo a rialzarsi e tornare a casa.

La spianata si svuota in fretta e nel silenzio.

Ma, come ho detto, dalla positività di questa gente c’è solo da imparare: questa mattina sono arrivata a scuola (a portare la piccola, io ho finito già da un po’ le elementari) e ho trovato la direttrice fuori dal cortile deserto; la suora spagnola si guardava intorno con aria smarrita (ancora più smarrita della mia, che arrivo sempre trafelata e sconvolta, visto che risveglio e preparativi rappresentano le due ore più intense di tutta la mia giornata), non riusciva a concepire che il presidente, al termine della partita avesse proclamato un giorno di ferie a sorpresa per oggi. E non per lutto, ma per festeggiare i ragazzi, accolti come eroi nel pomeriggio di oggi all’aeroporto, e che hanno avuto il merito di arrivare fino alla finale…

Non c’è che dire: il bicchiere è mezzo pieno!

domenica 5 febbraio 2012

CAN 2012

Un anno dopo la Guerra Civile, la Costa d’Avorio si candida a conquistare la Coupe d’Afrique des Nations (la versione africana dell’Europeo di calcio).
Dopo aver battuto con un secco 3-0 la Guinea Equatoriale, nazione organizzatrice, nei quarti di finale, agli Elephants restava solo un temibile avversario, il Ghana.

Yakou mi ha raccontato dell’indimenticabile finale dell’edizione 1992, quando proprio col Ghana, la Costa d’Avorio fu protagonista di un match infinito: dopo i tempi regolamentari, si andò ai supplementari e quindi ai rigori; ne dovettero battere ben 11 prima che i nostri passassero in vantaggio, perfino i portieri avevano dovuto tirare dal dischetto.

Ora: nel caso di un analogo epilogo si potrebbe parlare tranquillamente di sorcellerie (e già così, al mattino dei giorni in cui Drogba e compagni scendono in campo, all’incrocio fuori da casa nostra, si trovano i resti dei sacrifici effettuati per un buon esito dell’incontro… fortunatamente di solito si tratta di semplici cocchi bruciati – niente in confronto ai topi e lucertole sventrate che i miei micini mi fanno trovare accanto alla porta).

Ma anche il caso di una nuova vittoria, per quanto meno spettacolare, nell’ipotetica finale contro il Ghana, sarebbe una “magia”.

Se penso ad un anno fa esatto: qui la situazione iniziava a farsi calda, i tentativi di mediazione per convincere Gbagbo a cedere il potere all’eletto Ouattara erano falliti uno via l’altro; le banche avevano chiuso per mancanza di liquidi; la popolazione era allo stremo, ma ancora reggeva l’urto degli sfollati che fuggivano dalla capitale e dalle altre zone in cui gli scontri iniziavano a farsi sempre più frequenti e sanguinosi.

Era più o meno in quel periodo che i miliziani del presidente uscente avevano sparato su una manifestazione di donne, e poi su un mercato in uno dei feudi di Ouattara. Ed era in quei giorni che si iniziava a sentir parlare del Commando Invisibile di Abobo.

Ne sono seguiti 3.000 morti e più di un milione di deplacés. Tempi duri.

L’altra sera sono andata a seguire la partita al Carrefour Jeunesse. La spianata, sotto allo schermo gigante, era quasi interamente affollata di tifosi in maglia arancione. Probabilmente, sotto i colori nazionali, alcuni indossavano la canottiera col faccione dell’ex-presidente e altri quella con l’attuale.

Ma erano lì. E allora ho pensato che una vittoria (come ai tempi d’oro in cui l’unico faccione era ancora quello del primo presidente Houphouet Boigny e Abidjan sembrava Manhattan) sarebbe molto più efficace di tante iniziative sulla coesione sociale. Magari addirittura un impulso per l’economia.

Sicuramente sarebbe un bel regalo per i tanti miei amici che ancora arrancano: Yakou che dopo la Pace ha investito molto sul suo magasin di souvenirs per poi scoprire che i turisti tardano ad arrivare e quindi è tornato a rischiare la vita quotidianamente alla guida dei cinq-cent-quatre; Amhad, il vecchio rasta che ha girato tutta l’Europa e che campava noleggiando strumenti musicali, ormai tutti distrutti; Sulras, anche lui musicista reggae, che ha rinunciato alla sua occasione perché le pratiche burocratiche per andare in Francia a firmare con un’importante etichetta erano troppo complicate per lui e ora fa il manovale nei cantieri e organizza concerti in memoria di Bob Marley (oltre a bere massicce quantità di koutoukou); o Agnes, che ancora non ho capito come riesca, col modesto stipendio da cuoca e i suoi scarsissimi mezzi culturali, a tirare avanti da sola una famiglia di sei figli e due nipoti (più altri che capitano), tutti “per bene”.
O come Taibou, l’amico che un giorno ha telefonato per dire che (proprio approfittando della CAN) andava a vivere in Guinea… proprio come in una canzone: da un giorno all’altro, partito.

Non mi resta che augurargli “Good luck, good bye…” [Bobby Jean, Bruce Springsteen].

E aggiornarvi sul seguito della Coppa d’Africa.

venerdì 13 gennaio 2012

Ritorno in Africa

Sorvolerò sul mio soggiorno natalizio: catapultata da un mondo all'altro, dove clima, ritmi, atmosfera sono completamente diversi; vivere con le valige fatte perché un giorno sei a Milano, l'altro a Tortona, Torino, Cuneo, Lecco, San Martino Siccomario, Varese; riabituarsi alle piccole-grandi idiosincrasie di parenti, concittadini, governanti...


Vieni da un Paese che ha cominciato l’anno appena finito, con una guerra civile e che nonostante questo, con la pace ritrovata, spera e freme per un futuro migliore. E arrivi in un Paese (il tuo) in cui sui megaschermi della Stazione Centrale proiettano instancabilmente la pubblicità della fiducia nel futuro, mentre la gente in giro per strada vede un baratro davanti a sé.

Torni per risolvere rogne che sembrano non risolversi mai, fino all’ultimo momento. Perché ogni soluzione porta con sé un'altra rogna. Quando finalmente arriva il giorno della partenza: tu pensi di essere riuscita a fare tutto. O almeno l’essenziale. Allora inizi a stressarti pensando a cosa potresti aver dimenticato. E mentre, mano a mano che le tue congetture si verificano infondate, inizi a illuderti che le rogne urgenti siano sotto controllo, ti arriva la tranvata dove meno te l’aspetti.

Ti presenti al banco check-in, per esempio, con lo stato d’animo di quella che dice: “Ce l’ho fatta: anche questa volta sono sopravvissuta al viaggio nell’Universo parallelo” (che provoca più o meno gli stessi effetti dell’analogo viaggio nella serie Tv Fringe: indebolimento del tessuto cellulare, ovvero: sfinimento).

Porgi il biglietto costatoti gli ultimi 1.300 euro che sei riuscita a spremere dal tuo conto in banca.

Infine porgi il passaporto, e una signorina gentile e simpatica come un calcio negli stinchi ti dice: “Lei non può partire”.

Il tuo tessuto cellulare sta per implodere, ma tu reagisci e domandi spiegazioni: il visto sul tuo passaporto riporta solo il tuo nome e non quello di Marysol.

“Sì è vero – ribatti – ma al Ministero degli Affari Esteri Ivoriano dicono che il visto vale per il passaporto, e quindi per tutti coloro che vi sono iscritti, come mia figlia” Sei un’agente dell’Fbi (ops… la moglie di un cooperante) che viaggia tra due dimensioni parallele, quindi lo sai (perché una volta Brussels Air Lines me l’ha fatto notare, ma poi dopo essersi rapidamente informata mi ha fatto partire).

“Chiedo il parere del mio capo – scalo” risponde quella, con l’aria di una che sta pensando: “Piuttosto mi pianterei degli stuzzicadenti sotto le unghie”.

“Il mio capo scalo ha detto di no” e t’aspetti pure il gesto dell’ombrello.

“Voglio parlare col capo-scalo”

“Ci faccia fare il nostro lavoro”

“È il vostro lavoro: voglio parlargli di persona”

“Non è ancora arrivato”

“Quando arriva?”

“Non so: 10 minuti, mezz’ora?” (tradotto: “No, ma può anche andare a farsi un giro. Intanto questo aereo non lo prende).

“Lo aspetto qui. Mi avverta quando arriva” (era diventata una sfida personale).

Intanto che aspetti, ti voti al tuo Santo protettore. Che in questo caso non è ancora santo, è solo Don; quindi una sua dichiarazione che attesti che tu stai viaggiando, e hai viaggiato in questi due anni (senza il minimo problema), per conto della sua Ong e con tua figlia, non serve.

Cerchi di estorcere alla stronza del check-in, informazioni su cosa dovresti fare, quale documento potrebbe servire a convincerli che non sei una rapitrice di bambini, in fuga.

Ma quando quella arriva a chiederti il permesso di soggiorno in Costa d’Avorio della bambina (semplicemente non esiste), vorresti raccontarle di quella volta che, andando verso il Ghana, i frontalieri ivoriani non erano venuti a metterci i timbri di uscita sui passaporti, perché pioveva e non avevano voglia di uscire dalle loro casematte.

Pensi questo, mentre lei afferma solennemente di aver ragione perché loro fanno un corso di “passaporti e visti”. E poi aggiunge: “Comunque può parlarne col capo-scalo: è nel suo ufficio, al terzo piano” (maledetta, mi ha fregato: io avevo chiesto quando arrivava, ma non dove; e lei non me l’ha detto, facendomi perdere minuti preziosi… avrei dovuto intuire che tramava qualcosa, quando mi ha dato il numero sbagliato del suo superiore).

Occupi l’ufficio del capo-scalo, che parla solo arabo o francese. Raccogli tutte le forze che hai e cerchi di rispiegare tutta la faccenda dall’inizio, in una lingua che l’agitazione rende più balbettante del solito (e non è l’arabo). Gli chiedi se può chiamare il suo omologo ad Abidjan per domandargli se lui accetterebbe un passeggero con i documenti come i miei.

Lui risponde che non può chiamare lui (chissà perché)… “Ma…” – e qui gli occhi dolci e le mossette di Marysol devono aver aperto una breccia – se l’aeroporto di Abidjan gli manda un messaggio di autorizzazione, mi fa partire.

Ora: non c’è Olive Dunam senza Peter Beshop. Io ho Leo, che assomiglia di più a Fox Moldern, ma che ha già allertato “l’unità di crisi” dell’ambasciata italiana in Costa d’Avorio. Quindi lo chiamo: “Abbiamo l’informazione: devi dirgli di contattare l’aeroporto di Abidjan, che contatti l’aeroporto di Malpensa”.

Le lancette corrono, il check-in sta per chiudersi. Ti fai dare il cellulare del capo-scalo, gli lasci il tuo (nel senso di numeri, non nel senso che ti prendi il suo blackberry e gli dai il tuo Samsung tenuto insieme con lo scotch).

Voli giù al banco check-in (tutto questo con 46 chili di valige e 20 di bimba preoccupata ma nello stesso tempo divertita da quell’avventura). Speri succeda qualcosa entro 60 secondi.

E arriva la telefonata di Renato dell’Ambasciata, il tuo nuovo migliore amico: “Abidjan ha appena mandato l’autorizzazione a Malpensa”.

Cerchi il capo-scalo sul telefonino: non risponde. Tenti di fermare la stronza che sta chiudendo il check-in e con una pernacchia ti fa capire che questo volo l’hai perso.

“Ne ho uno alle 16.30” ribatti con stizza infantile.

“Eh, ma non ha i biglietti”

“Sono cavoli vostri come mi mettete sul prossimo aereo, visto che siete stati voi a farmi perdere questo”

“Se ha ragione lei, sì”.

Infatti avevo ragione io: dopo un McDonald’s e una sigaretta, ho rioccupato l’ufficio del capo-scalo. Il quale, dopo aver cercato di spaventarmi ventilandomi una possibile penale per il cambio di biglietto, ha dovuto mettermi sul volo senza scucirmi altri soldi.

Tu vai e ringrazi pure. Perché, anche se ti hanno fatto perdere 10 anni di vita, non sei capace di incazzarti. Forse perché tu ritorni.

Ritorni e trovi che i gattini da due sono diventati sette. Le zanzariere sono distrutte. La lavatrice è rotta. Hai un nido di serpenti dietro casa. Ti cade anche una statuetta in legno massiccio sulla testa. Il bancomat non dà soldi e la banca non cambia euri (ho solo 1.000 franchi, buoni per il pranzo, tanto poi ‘stasera mi raggiunge Leo). E sei felice: perché comunque qui tutto sembra molto più gestibile!

lunedì 12 dicembre 2011

Notizie dall'Italia, notizie dalla Costa d'Avorio

Sempre da una che continua a seguire le notizie italiane da molto lontano (e nemmeno più con tanta passione): mi sembra di poter dire che il primo risultato positivo del Governo Monti sia stato quello di riunire i sindacati.
Anche non rivedere più così spesso il faccione di Berlusconi sparato in prima pagina, migliora l’umore.
Bisogna accontentarsi di poco. D’altronde si sapeva fin dall’inizio chi fosse Monti: un economista classico, quindi non con “ricette” particolarmente innovative. Ma l’abbiamo preferito (a torto o a ragione, non lo so ancora) al nano malefico.
Per quanto riguarda poi la crisi economica… beh, ci sono abituata: prima perché ero studentessa; poi perché ero precaria; e ora perché sono disoccupata, in un Paese appena uscito da una guerra civile, e con un sacco di altri problemi: sempre sull’orlo del baratro, ma si tira avanti.
A proposito del Paese appena uscito dalla guerra civile: ieri qui si sono tenute le elezioni legislative… (suspence: gente che si chiede cosa sarà successo; “sarà stato un casino come lo scorso anno?”; “ho sentito che da qualche parte in Africa c’è tensione per delle elezioni contestate e due che si proclamano entrambi presidenti; “No,ma è in RD Congo”; “Sì, in effetti, capita spesso”; ma soprattutto gente che dice: “Embeh?”).
Tutto tranquillo (a parte il fatto che avevamo un centinaio di gendarmi accampati nel cortile di casa); anche perché, nella maggior parte delle circoscrizioni, non c’era vera competizione elettorale: già il partito di Gbagbo era un po’ allo sbando, dopo la sconfitta alle presidenziali del 2010, la crisi politico-militare (qui la chiamano così) e l’incarcerazione dell’ex presidente. Poi, col trasferimento di quest’ultimo al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, anche quei pochi candidati dell’FPI si sono ritirati per protesta.
Ma la vera notizia del mese è la pagella di Marysol: è la prima della classe!
E badate, non è il cuore di mamma a parlare: qui hanno la discutibile usanza di fare le classifiche di merito, fino al punto che sulla pagella stessa è segnato il punteggio totalizzato nel trimestre, dato dalla somma dei voti riportati per ogni materia. Mary ha ottenuto 64 punti su 70, piazzandosi – come precisato sul bollettino – prima su 35.
Ora: io ho sempre avuto una certa antipatia per le prime della classe (anche perché lo sarò stata forse solo alle elementari, e comunque a parimerito con almeno altre due persone; già alle medie ero l’eterna seconda; per poi calare a metà classifica nel corso del liceo).
Inoltre ritengo che ci siano metodi diversi per stimolare la competizione (o se non altro, meno umilianti per chi è ventesimo o giù di lì) e che comunque sia più importante incoraggiare la cooperazione, piuttosto che la rivalità.
Ma in ogni caso sono molto orgogliosa della mia piccolina, che (unica straniera nella sua scuola) si fa valere!

domenica 13 novembre 2011

Alla mia vecchia redazione

È in questi momenti che mi mancate. Quando scorro le notizie su Repubblica.it, per esempio: Berlusconi si è dimesso (meglio –troppo- tardi che mai!), ecc.
Mi immagino il fermento in redazione: Andrea con quattro cornette del telefono tenute due a due sulle orecchie con le spalle mentre digita sulla tastiera e segue le altre tv; un vociare da MilanoFinanza; Marina che parla a mitraglia dalla sua postazione; la Pira che sgambetta in giro; Melzi che sbraita al telefono e poi si trascina pesantemente nelle sale di montaggio; Gaio che, forse grazie al nome, riesce sempre a strappare una risata generale, anche nei momenti di maggior tensione; Carlos che aggiorna i pezzi del giornalino (i redattori del giornalino che se ne vanno in mansarda a fumare); qualcuno che inveisce contro Documentum; battutacce tra la regia e l’infografica; le signorine di ClassLife immuni a tutto tranne che alle sfilate di moda. E Franco. Seppur affranto per la caduta del “suo” Presidente del Consiglio, sta col fiato sul collo di tutti; come sempre… Anzi: più del solito!
Tante cose sono cambiate in questi due anni (e non parlo del digitale terrestre divenuto finalmente una realtà –chissenefrega-): io vivo nella brousse di un Paese in cui per “dimissionare” il presidente che aveva perso le elezioni, hanno fatto una guerra civile (un pochino più “esiziale”, ma si tratta pur sempre di un Paese di sudditi che amano il tiranno e quando cade lo calpestano); e seguo le notizie dell’Italia su internet, quando funziona. Lì, invece, ci sarà un palinsesto tutto nuovo, un sacco di gente diversa, un’organizzazione differente.
Ma mi ricordo una cosa che forse lì è rimasta e di cui, in questi momenti, sento la mancanza: l’adrenalina che si respirava quando la redazione veniva investita da una notizia importante. Era come una delle tempeste che si registrano qui: vedi addensarsi nuvoloni scuri all’orizzonte; li fissi e aspetti che arrivino; ti prepari, tendi tutti i muscoli in attesa di sentire il tuono che dà il via allo scroscio di pioggia; e quando finalmente arriva, il vento fa volare tutti i fogli e, come su una nave in balia dei marosi, tutti si dimenano per mantenere la rotta.
Mi ricordo l’11/9. Io ero ancora in stage, avevo avuto l’incarico di montare le macchie: vedere quei video prima che andassero in onda, mi faceva sembrare tali immagini paradossalmente più vere. Stavo assistendo alla Storia in prima fila, mentre Dario e Usai non riuscivano a spiegare (perché era impossibile farlo) ciò che stava accadendo. E Nicola era risalito dallo studio con la faccia della volpe che si è appena mangiata il pollo.
Oppure il G8 di Genova: quando in riunione di redazione ho confessato che “io c’ero” (non potendo tacere nel sentire “giudizi sommari” su Carlo Giuliani), ne è nata una discussione col Taglia, durata 8 anni.
Ma parlo di 1.000.000 d’anni fa!
Chissà adesso cosa sta succedendo lì da voi…
“Non ho immaginiiiiii!!!!”
Quante volte ho sentito riecheggiare questo grido disperato (quando saltavano i feed, quando si perdevano le cassette d’archivio,…)!
E ora sono io che lancio quel grido: il mio meraviglioso mondo da 20.000 leghe sotto i mari è completamente alieno da tutto ciò: niente Tg (“Come ha aperto il TG5? E Sky?”; “Ma hai visto Minzolini? Non si smentisce mai!”); perfino i video su internet sono preclusi dalle connessioni lente.
Cosa non darei per vedere la faccia del Cavaliere, finalmente senza quel sorriso da iena!
E per la prima volta, dopo due anni, vorrei essere lì. Solo per un momento, anche solo da spettatrice, e poi ritornare col mio Nautilus in Costa d’Avorio. Vorrei essere lì per respirare ancora quell’adrenalina, quello spirito di gruppo che (nonostante tutto), nei momenti gravi saltava fuori.
Ma soprattutto, per stuzzicare Franco: anche gli spread sono comunisti? E del “compagno” Monti che ne pensi? (personalmente ritengo che anche Topo Gigio in questo momento sarebbe meglio del Berlusca, ma continuo a sperare che in Italia prima o poi nascano dei politici veri).

mercoledì 9 novembre 2011

Abissàààààààà

Con la banda al gran completo ci apprestiamo a festeggiare l’Abissa.
Ritrovo al magasin di Yakou che ci accoglie con magliette e braccialetti per l’occasione. Quindi si prende in braccio la piccola, stende su tutti gli altri la sua ala di angelo custode e ci porta alla scoperta del dedalo di viuzze del quartiere coloniale.
L’Abissa è la festa annuale del popolo N’zima: il momento in cui il re di Quartier France (il quartiere coloniale, appunto, nonché capitale del regno N’zima) esce per incontrare la sua gente, giunta da tutta la Costa d’Avorio (e confini vari). Questi gli faranno le loro rimostranze, una sorta di bilancio annuale del regno; la loro forma di democrazia. Stando, almeno, alla spiegazione di Jonas (uno dei nostri educatori che è nel comitato organizzatore della festa). Secondo altre fonti (vd http://www.abissafestivale.com/Abissa.htm, very interesting), è il momento in cui tutti confessano a tutti i propri peccati e chiedono assoluzione e benedizione.


In ogni caso, si tratta di una specie di carnevale (progenitore forse di quelli caraibici o di New Orleans): gli uomini si travestono da donna, altri si mascherano con pasta, attieké, pop corn, scatole di fiammiferi o di sigarette, perfino con orsacchiotti o macchinine a pedali in testa! Tutti (quindi anche noi) si dipingono il volto con l’argilla, bevono e ballano ovunque per le strade. E ogni tanto bisogna gridare: "Abissààààààà" e ridere.


Noi entriamo subito nello spirito della festa: Yakou ci porta in una corte dove degli amici suoi hanno improvvisato un bar abusivo ed estemporaneo per la ricorrenza. E lì ci spariamo la prima bottiglia di orangin (koutoukoù –cioè grappa di palma- e succo della passione), che ormai nel mio cuore ha preso il posto del Pastis.
Poi andiamo verso la piazza dell’Abissà, in tempo per vedere sfilare il re: una processione variopinta e semiseria, in cui le persone agghindate in modo eccentrico (anche per loro), si mescolano alla cheferie e agli altri notabili che accompagnano il re. Tutti i membri della corte reale indossano l’abito tradizionale (una sorta di tunica all’antico romano, di una stoffa a fantasia geometrica verde, rossa e oro) e portano uno scettro, probabilmente in polistirolo, dipinto anch’esso d’oro. La corona del sovrano è dello stesso materiale, ma di una pretenziosa forma a fortilizio con torrioni.
Dopo il suo passaggio, ci scateniamo in danze a suon di tam-tam e fischietto. Io mi sento abbastanza impedita, ad affondare nella sabbia nel tentativo di imitare le migliaia di sederi, di ogni sesso ed età, che mi tamburellano intorno, vibrando come fossero tanti budini staccati dal resto del corpo e perfettamente sintonizzati sui ritmi sincopati della musica. Mary, invece, che si è sparata una bottiglia di coca-cola (per lei l’equivalente del nostro orangin, e quindi era eccitatissima), era perfettamente a suo agio: una nanetta bianca con t-shirt formato vestito da sera, che si agita in mezzo alla folla… inutile dire che abbiamo attirato piacevolmente l’attenzione.
Verso le sette di sera, ci sediamo ad un maquis per prendere fiato, mangiare un polletto alla brace e osservare la via principale del quartiere trasformata in un’animata sagra di paese.
Nel frattempo, Leo Mary e Nucci sono venuti a casa a dormire e noi, con altri amici che intanto ci hanno raggiunti, torniamo nella corte dell’orangin a spararci un paio d’altre bottiglie. Anche lì c’è musica: Zouglou, una sorta d musica tradizionale africana su ritmi techno… veramente inascoltabile! Ma non c’è problema: basta dirlo a Yakou, lui parte, va a parlare col dj e torna sulle note di Tiken Jah.
Dopo aver dato il meglio di noi in quel posto, abbiamo pensato di deliziare con la nostra allegria anche un altro localino, dove abbiamo trovato Ka-Jim, un cantante in voga da queste parti. Fa la sua comparsata con un paio di pezzi, poi lascia il microfono a un signore con una caldissima voce blues. Anche lì si balla e si beve fino allo sfinimento, quindi si torna alla piazza dove sapevamo che Ka-Jim avrebbe cominciato un vero e proprio concerto. Arriviamo in tempo per riuscire a sistemarci in prima fila, procurarci dei bicchieri e cercare di convincere la star (mentre sta cantando sul palco, l’idea infelice è di Caio) a farci un autografo su una foto, formato A4, spuntata da non so dove, che ritrae un Yakou giovanissimo al suo fianco. Fortunatamente prima che arrivino i gorilla della sicurezza, si mette a piovere e ce ne andiamo: chi in un’altra discoteca, chi (come la sottoscritta) a dormire (ormai sono le 4 di mattina!).
Buona Abissa a tutti!

mercoledì 2 novembre 2011

Sassandrà

Ore 8.15, partenza per Sassandra. Con solo un quarto d’ora di ritardo sulla tabella di marcia, ci avviamo alla scoperta della “Riviera di Ponente” della Costa d’Avorio.
Il viaggio è lungo: anche se sono solo 300 km circa, si tratta di attraversare tutta Abidjan (col suo solito traffico caotico) e di percorrere strade, asfaltate quando ancora c’erano i colonialisti. Ora, dopo 50 anni, due colpi di stato e un paio di guerre civili, per lunghi tratti il tragitto è sterrato o si apre improvvisamente in voragini in cui la macchina entra completamente e ne riesce piano piano. Se non si sta attenti si rischia di lasciarci il mezzo e la schiena.
Il paesaggio è comunque incantevole: lasciata la capitale economica alle spalle, il panorama inizia a farsi collinoso. Per me e Caio, abituati all’orizzonte sinuoso del nostro Piemonte, poter rivedere qualcosa di diverso dal piatto acquitrino in cui affonda Bassam è una vera emozione. E come sul mio Appennino, la statale sale e scende tra i boschi. Unica differenza è che là ci sono castagni, querce e abeti; qui alberi della gomma, palme, manioca, fromagé (una specie di ceiba sotto cui si riuniscono i villaggi a parlamentare). In alcuni momenti sembra che la vegetazione vinca contro il bitume e la strada si restringe, divorata dagli arbusti. In altri si passa sotto gallerie di rami.
Così per 9 (nove!) ore (con pausa per il pranzo). Per fortuna dal nostro archivio magnetico abbiamo tirato fuori una colonna sonora degna di un film on the road: Bob Marley, Rolling Stones, misto anni ’80, cantautori italiani, canzoni di lotta e protesta (Mary va matta per “Compagni dai campi e dalle officine…”; la sa tutta!).
Arrivati, scopriamo che il nostro hotel (oltre ad essere molto dignitoso) è dotato di terrazze panoramiche sul mare e sull’estuario del fiume, offre dei gamberi che sono la fine del mondo e ospita anche una famiglia italo-ivoriana: la piccola trova subito pane per i suoi denti, due bimbi scatenati quanto lei. È bellissimo vederli scorrazzare urlandosi dietro frasi per metà in francese, per l’altra metà in bresciano.
Il giorno dopo andiamo alla ricerca della Godé Plage, una spiaggia di cui ci hanno molto ben parlato, ma molto ben nascosta. Dopo vari tentativi, indicazioni fasulle (qui nessuno mai ti dice: “Non so”, piuttosto inventano) e un’oretta di pista nella giungla, arriviamo al Paradiso: infinita spiaggia dorata orlata di palme, deserta e selvaggia.
Qui vive Michel Godé, un uomo che sembra un barbalbero: fisico magro e nervoso, il tronco che sembra proprio quello di uno delle piante che abbiamo appena visto sfilare nella giungla, incrostato di liane di tendini. Dice di avere 36 anni, ma forse sono 46 ben portati; ha lavorato per anni sulle navi, facendo un po’ di tutto, anche il cuoco. E poi è venuto a stabilirsi qui. Inutile chiedersi perché proprio qui: è il primo impulso di chiunque vi metta piede.
Lui ha impiantato un albergo. Noi eravamo i suoi primi e unici clienti da quando aveva aperto; in marzo, mi pare mi abbia detto (se sul dove la risposta è facile, sul quando lascia perplessi: in piena guerra civile? Non ho avuto il coraggio di chiedergli se sapeva quello che era successo nel resto del Paese, giusto durante i primi quattro mesi dell’anno: forse in quel luogo di pace la notizia non era arrivata, non volevo turbarlo).
Siccome non ci aspettava, non aveva niente di preparato: ci ha tirato giù qualche cocco dall’albero e ce li ha dati da bere, mentre andava a pescarci qualche aragosta, uno squaletto e dei granchi che si riveleranno insuperabili.
Intanto che Michel prepara, io, Caio e Lina andiamo in esplorazione. Camminiamo lungo la spiaggia per un paio di chilometri: alla nostra sinistra l’Oceano, la corrente è violentissima, camminando sul bagnasciuga si ha la sensazione di essere trascinati via dalla risacca. Sotto i nostri piedi una sabbia a grana grossa, vi si possono riconoscere ancora i frammenti di conchiglia che l’hanno generata; a tratti il colore varia, dall’oro, al rosso, al nero… sembra quasi vulcanica, ma forse è solo petrolio, arrivato fino in questo luogo incontaminato.
In alcuni punti si sono accumulati massi dalle forme bizzarre: sembrano monoliti, non sono scolpiti (se non dal vento) ma ricordano i testoni dell’Isola di Pasqua; alcuni paiono teglie per far cuocere i biscotti, con tante conchette tonde (forse la famosa goccia che scava la roccia).
Alla nostra destra, il limitare della foresta, in cui ogni tanto si aprono dei varchi, attraverso i quali si intravedono capanne, bimbi che giocano in pozze d’acqua dolce, qualcuno (anche adulto) che fa la cacca senza troppo pudore. La solita vita di villaggio, insomma!
Sopra di noi: un cielo turchese, un sole splendente, qualche nuvola bianca e voli di rapaci che paiono aquile.
Potrebbe essere il set perfetto per un film di fantascienza: si potrebbe ambientare tanto in epoca giurassica, quanto in un futuro post-atomico. E di fatti, inerpicandoci su per una scogliera che segna la svolta bella baia, scopriamo un’altra spiaggia su cui è conficcato l’enorme relitto di una prua arrugginita, con la punta che indica lo spazio: più che naufragata, sembra piombata giù dal cielo e potrebbe essere successo anche secoli addietro: mi fa venire in mente la scena finale de “Il Pianeta delle Scimmie”. Ma purtroppo (o per fortuna), di scimmie in giro non se ne vedono, quindi andiamo ad abbuffarci.
Dopo una giornata alla Robinson Crosue (appena un po’ più attrezzato) torniamo all’hotel di Sassandra (da Michel si potrebbe anche dormire, ma mancano cose banali come l’aria condizionata e il bagno).
Qui ritroviamo il cameriere che ci ha servito la cena la sera prima, e la colazione quel mattino, e che abbiamo visto alla reception e fare molte altre cose, in qualunque mansione, location e orario dell’albergo. Ha sempre un’aria pigra e scocciata (comune a molti camerieri di qui), ma non antipatica né tanto meno tonta (anch’essa molto diffusa nella categoria). Cerco di immaginarmi la sua storia: lui, maitre d’un albergo fortunato ai tempi d’oro in cui i turisti riuscivano ancora a percorrere la strada per arrivare fin qua; ora rimasto ultimo eroico kamikaze a smazzarsi tutto il lavoro, costretto a lavorare quindici ore al giorno (per una paga che forse non è cambiata negli ultimi trent’anni) e a servire cena a una banda come la nostra. Cerco allora di immaginarmi come lui possa vederci: un gruppo eterogeneo per sesso, stirpe, età (dai 6 ai 72 anni) e casino che i suoi membri sono in grado di generare (chi salta, balla e canta mentre mangia –Mary-, chi ripensa le ordinazioni una dozzina di volta ma poi ricade sempre sui gamberi, chi litiga o forse sta scherzando a voce un po’ troppo alta).
Si va a dormire presto e ci si sveglia ancora più presto: gli ippopotami ci aspettano!
Partiamo all’alba su una piroga a motore e risaliamo un tratto del fiume che dà il nome alla località. Dopo svariati quarti d’ora di spettacoli paesaggistici, dei pachidermici animali, manco l’ombra.
Allora accostiamo: le acque si fanno troppo basse in quel tratto. Meglio proseguire a piedi. “A piedi? Ma non era previsto!” (coro ignorato). Così, in sandali e calzoncini corti ci addentriamo nella giungla, con la guida a farci il sentiero a colpi di macete, tra serpenti e formiche carnivore (e non è un’iperbole!). Fino ad arrivare in una bellissima casa, su un isolotto nel bel mezzo del fiume: di listelle di legno d’un azzurro slavato, immersa nel verde e affacciata su un’ansa tranquilla e chiusa da altri isolotti. Sembra un cottage di campagna, potrebbe essere la base per un film dell’orrore se non ispirasse tutta quella tranquillità. È chiusa, era di un francese che adesso se ne è andato, dove? Quando? Boh! Però è vissuta: ci sono scarpe vicino alla porta, attrezzi usati di fresco. Chi mai, oltretutto europeo, verrebbe a rintanarsi qui? Sicuramente uno che fugge da qualcosa, forse un collaborazionista di Vichy… Mistero.
Ma: attenzione! Dalla veranda si vede qualcosa, laggiù in fondo all’ansa; qualcosa che si muove. Vi giuro che è un ippopotamo, anzi sono due… o forse tre. Insomma: provate voi a decifrare le foto con lo zoom al massimo.
Al pomeriggio torniamo da Michel, quindi all’hotel: Alì, il cameriere scazzato, sembra stranamente di buon umore. Forse perché qualcuno osa ordinare qualcosa di diverso dai gamberi, forse il cuoco (unico sopravvissuto del passato glorioso a condividere con lui le pene dell’albergo) odia cucinare gamberi e diventa di cattivo umore quando è costretto a farli e vessa Alì (che ovviamente collabora anche con la cucina) con le sue frustrazioni. O forse è semplicemente contento che il mattino dopo ci leviamo dalle palle. Non prima di aver cambiato la gomma che qualcuno ci ha tagliato (escludo sia stato Alì, non aveva tempo né movente; indirizzo i miei sospetti più su uno schivo bianco bassamoise che alloggiava anche lui lì. Nemmeno lui aveva un movente, ma mi è sembrato molto antipatico).